Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film
Gill-Man/Babalù, Mon Amour!
È un tango, “the Shape of Water”.
Area 51 a Baltimora [no, nonostante in questi anni la “piccola” metropoli del Maryland (620.000 abitanti a un tiro di schioppo dal Potomac e dal District of Columbia), importantissimo porto U.S.A. sull'Atlantico, stia vivendo una renaissance cinematografica - dopo John Waters: David Simon, Matthew Porterfield, etc... - il film è stato girato interamente a Toronto e dintorni, Ontario, Canada] - ch'è come dire: U.F.O. a Civitavecchia o zombie a Pomezia -, ovvero: il “tipo” (Happy Go Lucky!) e la Bestia: Guillermo del Toro, scrivendo il film con Vanessa Taylor ("Game of Thrones" stag. 2 e 3), attinge tanto all'altrui quanto al “proprio” immaginario, saccheggiando qua e là: dal Gill-Man di Jack Arnold del '54 - “Creature from the Black Lagoon” - e séguiti, principalmente, all'Abraham “Abe” Sapien di Mike Mignola traslato al cinema dallo stesso regista in “HellBoy” I e II, secondariamente, in particolare per la presenza del mimo-fauno Doug Jones che ne incorpora fattezze, indole, espressioni, atteggiamenti e movenze (compresa e non ultima la predilezione per le uova sode e la manuale scaltrezza palmata con cui le sottrae dall'altare/bordo vasca delle offerte), de$treggiando$i tra accuse di plagio, estetica e struttura condivise e coincidenze immani, dalla pièce "Let Me Hear You Whisper" di Paul Zindel passando per alcuni momenti della cinematografia di Jean-Pierre Jeunet (Delicatessen/Amélie) e arrivando al cortometraggio olandese "the Space Between Us" scritto e diretto da Marc S. Nollkaemper. Insomma: un, anzi: IL, mash-up (per "eccellenza") di questi anni.
Le “solite” scenografie (degli ottimi professionisti Paul D. Austerberry e Nigel Churcher) dall'anima e dallo spirito di cartapesta [in “the Shape of Water” purtroppo siamo/restiamo più nei pressi delle fredde zone di “Crimson Peak” - e a rincarare la dose ci pensa la carica, pastosa, pesante, satura fotografia di Dan Laustsen, tornato a lavorare con del Toro proprio dal film precedente dopo una separazione di quasi vent'anni, dai tempi di “Mimic” - che nei due migliori e riuscitissimi dittici deltorotei: el Espinazo del Diablo/el Laberinto del Fauno (adolescenza in periodo franchista, '39 e '44) ed Hellboy/Golden Army] - ambientazione: primi anni '60 - equivalgono agli alberi potati delle everglades floridensi più addomesticate interpretanti la foresta pluviale amazzonica nel capostipite/originale b-movie arnoldiano in B/N stereoscopico polarizzato.
Montaggio del veterano artigiano televisivo Sidney Wolinsky (molti pilot ma non solo: the Sopranos, SwingTown, Sons of Anarchy, BoardWalk Empire, House of Cards, la stessa "the Strain", Ray Donovan, the Man in the High Castle) che sa esattamente dove e quando e come e perché intervenire senza strafare, lasciando la scene svolgersi senza spezzarle immotivatamente.
Alexander Desplat svolge bene il suo compito ma non vuole/riesce/può essere incisivo come con Jacques Audiard, Jonathan Glazer, Terrence Malick e Wes Anderson, e forse nemmeno come con Garrone, Polanski e Clooney. La variegata e copiosa colonna sonora non originale però organizza un buon contraltare, e dalla scaletta svettano Glenn Miller, Carmen Miranda e Caterina Valente.
Sally Hawkins è meravigliosa, ma questo già lo sapevamo (Little Britain, Cassandra's Dream, Happy-Go-Lucky, Never Let Me Go, Blue Jasmine). Muta tanto per dolore ed impossibilità fisica quanto per scelta, le sue criptiche cicatrici tracheal-giugular-carotidee saranno staminali prodromi gill-gemmanti branchie grazie al mesmerico/pranoterapico tocco del bioluminescente Dio del Grande Fiume (delta salmastro) ghiotto d'uova sode già pre-sgusciate (è un Dio, in fondo).
Michael Shannon giganteggia sommessamente (sopravvivendo a battute eccessivamente e semplicisticamente caratterizzanti - se pur volutamente non certo nuove, ma anzi consolidatesi nell'immaginario collettivo - come: "Un uomo si lava le mani solo o prima o dopo aver espletato i propri bisogni corporei. Ciò ti dice molto su quell'uomo. Perché se lo fa entrambe le volte...questo significa che ha un carattere debole"), e dopo il duetto con Shea Wingham (“Take Shelter” di Jeff Nichols) compone qui una differente coppia con un altro protagonista di “BoardWalk Empire”, il bravissimo interprete di Arnold Rothstein, Michael Stuhlbarg (A Serious Man, Hugo Cabret, MiB3, Seven Psychopaths, Lincoln, Blue Jasmine, Steve Jobs, Trumbo, Arrival, Call Me by Your Name, Miss Sloane, Fargo-3, the Post), trovando in esso un'ottima spalla/sparring partner/nemico/pseudo-nemesi.
Richard Jenkins (Six Feet Under, Burn After Reading, Olive Kitteridge, Bone Tomahawk) è praticamente un Sal(vatore) Romano di "Mad Men" in minore (anche per quanto riguarda la pacata tragicità della figura: il tentativo d'approccio alla tavola calda, ed il suo orgoglioso e sprezzante abbandonare pieno di delusione e indignazione il locale), e ha con sé la forza del parrucchino.
Completano il cast Octavia Spencer (impareggiabile, e indimenticabile, la messa in scena/atto amanuense/anatomica della contro-simulazione emulativa del pene estroflessibile) e David Hewlett.
["...siamo/eravamo diversi come due gocce d'acqua." -- Wislawa Szymborska, "Nulla Due Volte (Accade)" -- Vasco Brondi, "Chakra"]
Mi astengo da ogni pedante sottolineatura della morale (aka elogio della diversità) perché sarebbe come dire che “2001: a Space Odyssey” parla di Australopithecus/Homo e di astronavi e della Vita, dell'Universo e di Tutto Quanto.
“The Shape of Water” da una parte non vuole/riesce/può (bis) essere - per forza di cose - coerentemente filologico con una propria auto-generazione di originalità come “Lady in the Water” e dall'altra finisce - così come ha iniziato - col giocare ed appoggiarsi molto, anzi troppo, sulla semplificazione retorica (autoevidenziantesi: il Centro di Ricerca AeroSpaziale di... Occam) di un immaginario comune, condiviso, in continuo insorgere di simboli(smi), paratesti e simulacri attraverso livelli multipli (dal blockbuster all'arty), e al contempo non raggiunge vette di empatia melò/drammatica (sia asciutta sia al calor bianco) come ad esempio opere molto eterogenee tra loro quali “Harold and Maude”, “Titanic”, “Punch-Drunk Love”, “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”, “Carol” (e qua mi fermo senza titare in ballo Douglas Sirk e Wong Kar-wai). Gli si riconosce, però, una sufficiente dose non di "urgenza/necessità" politica, bensì di "cosmopolita/universale" sincerità.
La programmaticità si delimita da sé: lo spoiler è già nella locandina, e rimarrà tanto parzialmente inspiegato, irrisolto e "aperto" quanto fatale e fatato.
[Billy Wilder, George Axelrod, Marilyn Monroe, Tom Ewell: "the Seven Year Itch", 1955]
Chiedersi cosa ne avrebbero fatto John Landis, Joe Dante o John Carpenter del “remake/reboot” di “Creature from the Black Lagoon” è un bel “E se...”.
Dry for Wet: * * * ¼ (½) - 6½ (7)
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