Regia di George Stevens vedi scheda film
So you’re Jack Wilson?
What’s that mean to you Shane?
I’ve heard abaout you
What have you heard Shane?
I’ve heard that you’re a low-down, Yankee liar
Prove it!
Conquistato con pieno merito un posto tra gli immortali (le opere che il tempo sembra non poter scalfire) il film di George Stevens mi sorprende ogni volta che lo guardo per la sua immutabile bellezza, per il modo in cui valorizza temi classici e universali, per il suo essere perfetto ibrido tra vecchio e nuovo.
La figura del cavaliere solitario è un archetipo tra i più sfruttati nel genere western, pistoleri silenziosi e letali, bounty killer caratteristici, cowboy pronti a lottare per un ideale di giustizia o per vendetta, spesso per aiutare i più bisognosi.
Shane sarà uno dei primi a solcare l’orizzonte arido della frontiera, eroe tormentato e dal passato misterioso lo vediamo apparire all’inizio del film in sella al suo cavallo diretto verso la fattoria degli Starrett, la sequenza resterà per sempre una delle più citate nel cinema western e consacrerà George Stevens regista di riferimento assoluto.
Fin dal principio risulta evidente il forte contrasto tra il pistolero e la famiglia di coloni, un uomo che non ha una meta e che forse attende solo il suo destino e un gruppo di persone che lotta per un futuro di prosperità da raggiungere con il duro lavoro, possibilmente vincendo le prepotenze dei loschi Rikers, proprietari terrieri senza scrupoli decisi a imporre la loro legge.
Shane è chiaramente un personaggio iconico, per precisa volontà del regista il protagonista vive in una dimensione quasi mitologica, una dimensione che viene presentata allo spettatore attraverso lo sguardo incontaminato del piccolo figlio degli Starrett, fin dal sua arrivo alla fattoria proseguendo per tutti i momenti salienti del racconto (la scazzottata nel saloon, lo scontro con Joe Starrett, il duello finale) sarà sempre attraverso gli occhi del giovane co-protagonista che osserveremo le gesta di Shane.
La scelta è senza dubbio vincente ed è uno dei motivi che fanno di questo film un opera fondante nel genere e inattaccabile dal tempo, la forza e la potenza narrativa del personaggio assumono in questo modo dei valori universali, stabiliscono dei parametri filmici (riferiti ovviamente al western) che saranno nel corso degli anni riproposti con alterne fortune da molti altri registi, tra i tanti vanno citati almeno Sergio Leone e Clint Eastwood.
Un altro aspetto fondamentale e di grande rilevanza nell’economia del film è il forte senso di realismo che caratterizza tutta l’opera, la descrizione della dura vita dei coloni, i sacrifici e gli stenti, la battaglia quotidiana con la terra (significativi i particolari, i vestiti, le scenografie), Stevens cura questi elementi con grande attenzione concentrandosi maggiormente sulla rappresentazione della violenza, mai ostentata, mai mitizzata.
Alan Ladd colpisce all’improvviso Ben Johnson (storico caratterista del western americano) e sul volto dell’attore compare una striscia di sangue, Jack Palance (Wilson) spara a Torrey e il povero contadino viene scagliato all’indietro finendo nel fango, le pistole sono usate con parsimonia ma quando colpiscono lo fanno in modo realistico.
Come dicevo all’inizio il forte contrasto tra mito e realtà, tra vecchio e nuovo, valorizza in modo determinante l’opera di Stevens, il duello finale può benissimo essere preso come massimo esempio di questo tipo di messa in scena, da solo vale il classico “prezzo del biglietto”, oltre a essere uno dei momenti più importanti dell’intera cinematografia western rappresenta un vero saggio di tecnica, le inquadrature, l’uso del sottofondo musicale, i particolari (il cane che si allontana mestamente quando il killer Wilson si alza in piedi), i tempi della sequenza semplicemente perfetti.
Bravi tutti gli interpreti, Alan Ladd in quel periodo era un attore di grande richiamo e anche se ad un primo sguardo sembra non avere il phisique du ròle per interpretare il pistolero si dimostra invece perfettamente in grado di padroneggiare la maestosità del personaggio (quando risponde al sorriso canzonatorio di Wilson con un ghigno di morte lo spettatore lo ama incondizionatamente), Van Heflin bravo nei panni dell’orgoglioso Starrett, ottimamente supportato della sofferta moglie Jean Arthur (la storia d’amore platonico tra lei e Shane viene appena accennata, ennesima scelta vincente di Stevens).
Il film termina come era iniziato, Shane si allontana in sella al suo cavallo dirigendosi verso le imponenti montagne, la sua andatura è scomposta e sofferta, cresce il sospetto che l’eroe sia ferito mortalmente ma questo punto non sarà mai chiarito (ho divorato il commento al film nella speranza di una rivelazione che purtroppo non c’è), il piccolo Joey lo chiama ripetutamente (Shane come back!) mentre le storiche note di Victor Yong ci accompagnano verso i titoli di coda.
Sei Nomination agli Oscar (tra cui miglior film, regista, sceneggiatura e attore non protagonista a Palance) e un sola vittoria per la splendida fotografia di Loyal Griggs.
Mito.
Voto: 9.5
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