Regia di George Stevens vedi scheda film
Nella classifica delle frasi più emblematiche del cinema americano, si staglia anche il grido che il piccolo Brandon de Wilde getta nella cosiddetta valle solitaria del bizzarro titolo italiano. «Shane!» urla il bambino, suggellando con struggente tensione il suo romanzo di formazione; e poi «perdonami!» per farsi accogliere nel mondo degli adulti , oppure «ritorna!» e così continuare a vivere l’avventura di cui il misterioso Shane è eroe archetipico. Da dove viene Shane, cavaliere solitario di poche parole? Nessuno lo sa, e sta proprio qui il mistero, o per meglio dire, la forza: è un personaggio di cui non è necessario sapere più di quello che non si sa. Cosa cerca e perché lo faccia non sono quesiti fondamentali: l’importante è sapere che cerca qualcosa che forse nemmeno lui sa.
L’epilogo aperto sottolinea proprio questa sua funzione mitica all’interno di un racconto en plein air in cui collimano la dimensione politica (lo scontro tra odiosi “pionieri” conservatori e onesti “nuovi venuti” democratici) e l’anima romantica (è anche una malinconica storia d’amore represso tra Shane e la madre di famiglia: la cinquantenne Jean Arthur alla sua ultima interpretazione cinematografica), nonché le due tendenze del cinema postbellico dell’americanissimo George Stevens (le narrazioni familiari, spesso tragiche, e il “gigantismo” della nazione, parafrasando un suo titolo di successo). E così il titanismo della valle splendidamente fotografata da Loyal Griggs (e solo parzialmente invasa da note solenni di Victor Young) si fa luogo idealizzato di un romanzo polifonico filtrato da occhi infantili, in cui il cattivo non può che essere di nero vestito (Jack Palance, negativo di Shane), il padre ha una dimensione mitica (il sofferto Van Heflin) e l’eroe è mitizzato (Alan Ladd a dir poco ieratico). Un classico della cinefilia, seminale e celebrato, è un film delicato sul valore della formazione: bellissimo.
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