Regia di George Stevens vedi scheda film
un malinconico, sentito omaggio da leggere tutto in positivo, che Stevens fa a un periodo storico fortemente epicizzato ma affascinante come pochi altri, cancellato dal progressivo slittamento della nazione nell’American Tragedy dell’industrialismo.
Superbo capolavoro soprattutto per la critica francese del dopoguerra, Il cavaliere della valle solitaria è una pellicola che ebbe vasta risonanza anche qui in Italia (dove fu accolta dai più con analogo entusiasmo ma che deve adesso necessariamente misurarsi con i suoi 60 anni e più che si porta sulle spalle).
Per me rimane ancora un grande film, su questo non ho dubbi, ma nonostante ciò, non riesco a rimanere totalmente ancorato a un giudizio espresso in un passato tanto lontano, né ad essere così categorico e assolutista nella valutazione perche mi sembra che oggi come oggi, qualche riflessione più critica la richieda, ed è ciò che cercherò di fare in questa circostanza.
La sua unicità (un aggettivo col quale è stato spesso etichettato) sta a mio avviso nella contaminazione che Stevens ha fatti (e anche molto bene) fra il mito dell'Ovest e i temi trattati dai romanzi del ciclo bretone (la letteratura epica dell'Europa medioevale) che celebrano le gesta degli eroi dal cuore adamantino che si ritrovano pure nelle saghe nordiche, leggende comprese. Forse è proprio per questa sotterranea familiarità che la pellicola è stata molto amata da noi (quelli della mia generazione - me compreso - l'hanno addirittura venerata forse ancor di più che nella sua patria).
Nel mio immaginario insomma, ancora oggi Shane (titolo originale e nome del suo protagonista) continua ad essere molto di più di un semplice "avventuriero" errante (di queste figure ne è pieno il genere western passato e presente e rischierebbe di confondersi nella massa se non fosse per quella particolare peculiarità a cui ho accennato sopra che è poi la cosa che lo rende davvero diverso da ogni altro). Lui infatti indossa perfettamente le vesti (rubo le parole al critico Yves Kowacs) "di un prode cavaliere della Tavola Rotonda partito alla ricerca del Sacro Graal sul suo destriero bianco che qui si staglia sullo sfondo di uno scenario grandioso come quello offerto dalle montagne rocciose con le loro cime innevate coronate di nubi che sembrano voler toccare il cielo". Un giustiziere dunque che è a suo modo una specie di modernoSigfrido nibelunghi ano coraggioso, riflessivo ed enigmatico circondato da un'aura di mistero nella sua commistione mai scissa di altruismo, bontà e violenza.
E’quindi il singolare ritratto di un romantico pistolero arrivato in difesa dei più deboli (tutti ne vorremmo incontrare uno sulla propria strada) che per la sua insolita statura morale suscitò la simpatia non solo della critica, ma anche del pubblico che già nell’immediato, decretò il successo popolare e di cassetta di questa storia di frontiera un po’ crepuscolare che anticipa comunque le atmosfere del cosiddetto “sur-western”(è così che i francesi definirono poi questa tendenza che in anni successivi si imporrà come svolta "autunnale" che segnerà il tramonto della fase ottimistica di un west più mitizzato che reale e ne preannuncerà l’ingresso nei climi più problematici, intimisti e veritieri del genere).
Detto questo però i frequenti passaggi televisivi della pellicola mi hanno consentito di verificare "oggettivamente" (almeno così a me sembra) che il tempo qualche segno lo ha lasciato, e questo nonostante il fatto che avendo il regista adottato il punto di vista di un bambino, si possono giustificare ancora una certa visione manichea delle cose, la presentazione un po’ schematica delle vicende e l'idealizzazione di molte situazioni oltre che del carattere di alcuni dei suoi protagonisti. Si respira infatti un'atmosfera da "fiaba" edificante e idilliaca anche per quel che riguarda la morale che non si discosta dalla convenzione poiché pure qui, come del resto accade in quasi tutte le opere di frontiera, alla fine il bene ha la meglio sul male che viene sempre sconfitto, un procedimento questo molto rassicurante che forse contraddice la realtà, ma che a me continua a piacere molto. Potrebbero però essere proprio queste le ragioni da cui traggono origine alcune critiche odierne formulate da chi accusa il film di un certo accademismo, accentuato - dicono i detrattori - dallo stile maestoso e ricercato della messa in scena che fa un uso del colore (che valse un oscar come miglior fotografia a colori assegnato nel 1954 a Loyal Groggs ) trovato a volte un po’ stucchevole nella sua composizione paesaggistica da cartolina che in qualche momento sembra voler sfiorare il calligrafismo. Al contrario, io credo invece che sia stata la modalità giusta (e anche innovativa, se vogliamo) per dare una valenza quasi metafisica a una storia indubbiamente esaltata dall’uso intelligente del colore in tutte le sue sfumature, anche se (devo convenire) rischia così di allontanarsi un poco dalle sorgenti pure e vitali del western classico delle origini a causa di un eccessivo uso della “poesia” dell’immagine . Questioni di punti di vista insomma perchè le stesse cose da qualcuno lette in negativo, rappresentano invece ai miei occhi (e questo ancora oggi) un malinconico, sentito omaggio da leggere tutto in positivo, che Stevens fa a un periodo storico fortemente epicizzato ma affascinante come pochi altri, cancellato dal progressivo slittamento della nazione nell’American Tragedy dell’industrialismo.
Un western quotidiano e al tempo stesso leggendario dunque sugli sfondi grandiosi e solitari del Wyoming di fine ottocento, al tempo dei conflitti fra coloni e grandi proprietari di bestiame, che riesce comunque a fondere magistralmente il realismo con cui viene descritta la vita degli agricoltori, con la componente archetipica dell’eroe solitario senza macchia e senza paura con cui viene rappresentato Shane, un pistolero capace di uscire dagli scontri più cruenti e titanici, senza nemmeno un graffio (o quasi) e come tale, più che invincibile, quasi “immortale” più vulnerabile nell'anima che nel corpo, anche se qualche ammaccatura se la prende. Per Stevens insomma (da sempre attento osservatore della storia nazionale americana), un’occasione d’oro per realizzare un’opera grandiosa come questa (e attraverso di lei, fare anche - secondo la visuale del piccolo Joey - il suo personale omaggio al mito immarcescibile dell’epopea western ormai al tramonto), ma che forse un vero capolavoro assoluto non lo è mai stato (anche se ci si è avvicinato parecchio), soprattutto se confrontato con certe pellicole girate più o meno negli stessi anni, moderne e innovative quanto mai , e penso soprattutto a quello che hanno prodotto registi indubbiamente più talentuosi come Anthony Mann o Nicholas Ray).
Gli stereotipi del genere (se così vogliamo definirli) ci sono già tutti, e non solo per quel che riguarda gli ottimi protagonisti (il cavaliere senza macchia e senza paura che arriva cavallo per ristabilire l’ordine e i principi della legalità e l’umile agricoltore con una moglie devota, rispettosa e docile al seguito insieme al loro giovane figlio, un ragazzo dagli occhi risplendenti come quelli dell’allora adolescente Brandon De Wilde che lo interpreta e lo rende credibile – uno dei tanti bambini prodigio dell’epoca - morto prematuramente a soli 30 anni nel 1972 per un incidente automobilistico, un attore che non ha però mantenuto le promesse: sembrava destinato a una brillante carriera ma da adulto lo ritroveremo invece quasi sempre in pellicole di secondo piano e con due soli interessanti personaggi al suo attivo, probabilmente gli unici, insieme a questo, per i quali vale la pena di ricordarlo ancora: il fratello tormentato di Warren Beatty ne E il vento disperse la nebbia di John Frankenheimer e l’altrettanto introverso e ribelle diciassettenne nipote di Paul Newman in Hud il selvaggio di Martin Ritt), ma anche (e forse ancor di più) per tutte le altre figure che girano loro attorno, tutte da manuale: l’allevatore prepotente (Emile Meyer) che vuole tutta per sé e le sue mandrie la vallata e i rozzi cow boy alle sue dipendenze; il vecchio e taciturno barista proprietario del negozio del luogo (Paul McVey); il timido colono svedese (Douglas Spencer); e soprattutto il pistolero mercenario sempre vestito di nero dalla testa ai piedi assoldato per far fuori i coloni che non vogliono cedere le loro terre, oscura, viscida e indovinatissima incarnazione del male (un luciferino Jack Palance da antologia) . Tutti personaggi insomma disegnati così bene che da soli valgono la storia.
E’ indubbiamente un film iconico, e forse è proprio per questo che al di là dei suoi effettivi meriti, è anche uno dei western che resta più impresso nella memoria del pubblico e quello che probabilmente nessuno scorderà mai (parlo di chi l’ha visto ovviamente). Il western per eccellenza (si potrebbe dire) quello che sollecita e tiene vivo l’immaginario collettivo (e se non è il più grande in assoluto, chi se ne frega!!!!): qui ognuno può esprimere le proprie preferenze perché di grandi opere nel genere ce ne sono a centinaia a cominciare da Ford e i già citati Mann e Ray e dunque da qualunque parte ci si volga, si casca sempre in piedi. Il critico Murray Pomerance (che pure ama molto anche questo titolo) ci ricorda per esempio (esprimendo però anche molti “forse” che testimoniano quanto lui ci creda poco in queste inutili classifiche di merito, ottimo terreno di lavoro e di scontro solo per coloro che hanno tempo da perdere dietro a queste questioni più che secondarie) che secondo alcuni recensori soprattutto americani, è El Dorado di Howard Hawks a meritare il primo posto in assolto (ma è soltanto un’ipotesi, ovviamente, non una certezza assoluta e mi sembra già di vedere la folta schiera di coloro – me compreso – che non sono assolutamente d’accordo) mentre ritiene che quello più virile sia da considerare Il fiume rosso (ancora Hawks insieme a Arthur Rosson), che il titolo di più autentico fra tutti, spetti a I compari di Robert Altman, quello del più anomalo a Johnny Guitar (di Nicholas Ray appunto) che se la batte però con Rancho Notorius di Fritz Lang, e che quello del più drammatico spetti indiscutibilmente al Ford di Ombre rosse, un regista così monumentale che con le sue opere potrebbe riempire da solo tutte le caselle sopra evidenziate (Sentieri selvaggi, i dannati e gli eroi, Sfida infernale, il massacro di Fort Apache, L’uomo che uccise Liberty Wallace, Rio Bravo, Soldati a cavallo sono solo alcuni dei film da lui realizzati e credo che nessuno potrà sconfessarmi se dico che sono fra i più belli in assoluto). Se si pensa poi a tutto quello che è stato prodotto dopo, ci si rende perfettamente conto che in questo campo ciascuno può davvero sbizzarrirsi come crede in base alla propria sensibilità e preferenze, ma sorge anche chiarissima l’impossibilità oggettiva di voler
proclamare una classifica di merito che sia condivisibile da tutti, e questo vale soprattutto per il titolo da incoronare come il più bello in assoluto.
Per tornare a Il cavaliere della valle solitaria, credo di aver detto quasi tutto ciò che c’era da dire. Devo solo aggiungere (e qui si torna alla fotografia) che è un film zeppo di immagini fortemente rappresentative a partire dai purpurei massicci del Grand Teton che fanno da sfondo alla vicenda. Ma ci sono altre perle da ricordare sparse un po’ dappertutto (due in particolare: la prima è quella in cui Wilsion - Jack Palance - cammina impettito sotto il porticato di legno con gli speroni che sbattendo mandano uno strano suono e il cane del villaggio che si allontana mugolando con la coda fra le gambe; la seconda, quando Shane incontra per la prima volta la famiglia Starrett, accetta l’invito a cena e una volta in casa è così affamato che si avventa con ingordigia sulla torta di mele (dorata, vaporosa, talmente voluminosa da essere da sola sufficiente da sola a placare il suo appetito) sfornata da una bella ragazza vestita di blu e servita con una buona tazza di caffè per la quale ancora Pomarance spende queste parole: “Si può pensare che sia stata una torta di mele come questa a fare l’America del West, non le pistole, né le mandrie, né lo sguardo sognante rivolto all’orizzonte”.
Mi vengono però ancora in mente altri momenti topici come la bellissima ripresa del cervo che pascola vicino a uno specchio d’acqua mentre il ragazzo lo prende di mira con il suo fucile giocattolo e fa finta di sparargli simulando con la bocca il suono dello sparo o quella che ci mostra in primo piano il ghigno malvagio stampato sulla faccia dell’allevatore quando Starrett rifiuta di rinunciare alla sua terra. Ce n’è un’altra però ancora più forte: quella che immortala la cinica malvagità dello sguardo di Palance quando spara al disarmato Frank “Stonewall “Torrey (Elisha Cook Jr.) che cade nel fango ormai ferito a morte, senza dimenticare lo splendido duello conclusivo nel quale Stevens cerca di cancellare il realismo spazio-temporale della scena per dare maggior risalto alla figura mitica di Shane, e lo fa aumentando a dismisura gli angoli di ripresa (se ne contano più di quaranta in pochi minuti) prolungando così il forte impatto emotivo del momento . Fra tutte però prediligo quella del tramonto più tramonto di ogni altro (consentitemi questa innocua boutade) che è poi anche quello con il quale chiude il film (confesso di averci versato pure qualche lacrimuccia quando lo vidi per la prima volta) con Shane che salta in sella al suo fido destriero e cavalca lontano, verso l’orizzonte mentre il piccolo Joey lo insegue gridando “Shane! Ti voglio bene, Shane!”.
Gli attori, tutti perfettamente in parte, vedono in pole position Alan Ladd in una delle sue più belle e riuscite interpretazioni, coadiuvato da Jean Arthur (qui nella sua ultima apparizione sullo schermo), Van Heflin, Ben Johnson , Edgard Buchanan, Ellen Corby, John Mille e tutti gli altri dei quali ho già parlato prima.
Il film vinse un solo Oscar (quello assegnato al direttore della fotografia Loyal Groggs) ma collezionò altre cinque candidature (miglior film e miglior regia, migliore sceneggiatura, oltre alle due per il miglior attore non protagonista riservate a Jack Palance e Brandon De Wilde).
SINOSSI
Joe Starrett vive con la famiglia (la moglie Marion e il figlioletto Joey) in una vallata solitaria del Wyoming in cui tutti i contadini, i pionieri che coltivano la terra, sono continuamente angustiati dalle prepotenze di Rufus Ryker, un ricco allevatore che cerca con ogni mezzo di allontanarli dalla valle. Alla fattoria arriva un giorno un misterioso cavaliere,Shane. Accolto con cordialità, Shane decide di fermarsi a lavorare presso la famiglia. Ryker frattanto, assistito da un famoso pistolero prezzolato (Wilson), insiste nei sui soprusi e prepotenze: minaccia un fratello di Starrett e cerca di attirare lo stesso Joe in un tranello. Ma al luogo convenuto si presenta invece Shane, che dopo uno scontro furioso ha la meglio sugli avversari, uccide Wilson e Ryker. A questo unto il suo compito è finito.:La valle sembra di nuovo sicura ed egli può andarsene, rimpianto dai coloni, da Marion (segretamente innamorata di lui) e dal piccolo Joey.
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