Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Alla base del cinema di Pupi Avati c’è la questione del tempo. Spesso le storie di Avati sono racchiuse in un’unità di tempo breve: la partita a poker di Regalo di Natale (ma anche de La rivincita di Natale), la Festa di laurea, il non-tempo di Una sconfinata giovinezza e così via. Guardando Una gita scolastica, uno dei film più sereni del regista bolognesi – nonché una delle opere migliori dei desolanti, tristi, imbecilli anni ottanta –, si prende consapevolezza di qualcosa di ben definito: il senso dell’effimero – niente è più effimero di una gita scolastica, anche perché nelle gite scolastiche si vivono esperienze che nella vita normale sarebbero impensabili, quasi come se fosse una realtà parallela – che riecheggia in ogni angolo della verde natura incontaminata e rigogliosa degli Appeninni tosco-emiliani e la dimensione atemporale della storia.
Sì, la collocazione storica è certa, perfino inquietante se uno ci riflette: siamo nel 1914, la maggior parte dei ragazzi della storia finiranno sotto le armi e chissà se resisteranno. C’è quindi quel tema tanto caro all’universo avatiano, ossia il passaggio verso l’età adulta, la perdita dell’innocenza e l’assunzione di uno sguardo non più limitato ai territori adolescenziali. Ma è indubbiamente una storia senza tempo, che può essere narrata anche nel 1954 o nel 1984, cambiando solo qualche cosa nel contesto storico. Ci sono tutti i topos delle gite: la ragazza che si gioca tutto in nome dell’amore, il ragazzo innamorato della professoressa, quelli che mai avranno storie d’amore che durano il tempo di una gita, la professoressa in crisi.
Al centro della scena, però, c’è un professore, quarantasei anni, talmente dedito al suo lavoro da essere probabilmente vergine, che coltiva un amore segreto per la statuaria collega di disegno. Più che attraverso gli sguardi degli alunni – di base è un racconto di formazione, che si focalizza con gli occhi di Laura, l’ultima reduce di quella gita – Avati sceglie di concentrarsi sul più affine professore, impersonato con magistrale discrezione e delicatezza dal ritrovato Carlo Delle Piane, in cui si riversano la paura dei sentimenti e il bisogno di completarsi: anche per lui è un percorso di formazione. Una favola lirica e pure elegiaca, dolce e ma non mielosa, soave come le musiche di Riz Ortolani, delicato come un racconto d’altri tempi. Felicissimo, con un finale di struggente armonia.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta