Regia di Jason Paul Laxamana vedi scheda film
Far East Film Festival 19 – Udine.
Negli ultimi anni, mescolare tra loro commedia e dramma è diventato un modus operandi che va per la maggiore e anche Mercury is mine segue questa tipologia di partitura. A fare la differenza è una sensibilità singolare, frutto dell’origine filippina, con influenze dettate dalle aperture di questo popolo al mondo, che impattano su una realtà locale per certi versi ancorata a stili di vita di un’altra epoca.
Pampanga, nelle Filippine. L’attività di ristorazione di Carmen Batag (Pokwang) attraversa una crisi nera, ma con l’inaspettato arrivo di Mercury (Bret Jackson), improvvisamente anche gli affari ripartono, aiutati dalla bellezza del ragazzo, che richiama molte giovani.
Dietro il suo arrivo si nasconde però un passato macchiato dalla violenza in più, a minacciare questa collaborazione tra differenti generazioni, ci pensa pure il produttore di un talent show che ha messo gli occhi sul ragazzo.
Incentrando il suo lavoro sulla descrizione di un rapporto diretto tra due personaggi quanto mai distanti - un giovane ragazzo bianco e una cinquantenne che farebbe di tutto per scolorire la sua pelle -, il regista Jason Paul Laxamana è tanto fantasioso quanto spericolato, capace di saltare di palo in frasca con una disinvoltura estrema.
Già l’anticipo sul film vero e proprio, tra una surreale lezione culinaria e un ambiente di morigerata fatiscenza con tanto di leggenda sul fantomatico tesoro di Castano, è sufficientemente folkloristico ma nel proseguo i toni tendono ad accendersi rapidamente e poi a scaldarsi, fino ad andare fuori giri.
Nel nome di uno stile estremamente decorativo, rientra la citazione ad effetto - ripetuta più volte, sempre con ulteriori sfumature - a Laguna blu, le musiche sembrano risucchiate dalle comiche di vecchia data e le digressioni cittadine aiutano ad alterare la visione da campagna, ma poi non rinnega neanche temi più sentiti e seri.
Il regista non ci perde il sonno, ma non nasconde il passato burrascoso di Mercury, porta alla luce il problema razziale sia a livello personale sia a quello più universale e getta nella mischia il mondo dei reality che, in questo caso, è rappresentato da uno spettacolo intitolato Ragazzi deliziosi, ambientato ai fornelli ma con un indubbio interesse verso la beltà dei soggetti coinvolti.
Da tutte queste caratteristiche, scaturisce uno scenario indubbiamente brulicante di vita, in continua trasformazione come il cielo in primavera (di una volta), che presenta difficoltà a vario titolo sul piano narrativo soprattutto nell’avvicinamento al finale, quando il controllo sembra smarrito, rischiando un insidioso effetto trascinamento.
È comunque una visione che sente la realtà della sua terra, senza per questo rimanerne prigioniera e quindi astrusa a uno spettatore occidentale, che ricorda agevolmente quanto conti credere in qualcosa per andare avanti, pur rischiando di rimanere avvelenata da un principio di confusione che, proprio sull’epilogo, è lì a un passo, il successivo rispetto al mix tra paradosso e grottesco cui assistiamo.
Ventilato nello spirito e saturo di iniziativa, probabilmente fin troppo spregiudicato.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta