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La tortura del silenzio

Regia di Guy Green vedi scheda film

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La recensione su La tortura del silenzio

di (spopola) 1726792
2 stelle

Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: questo La tortura del silenzio è un brutto film, una di quelle opere che insomma non meritano appello: reazionario e truffaldino oltre ogni limite di decenza, è un pamphlet antisindacale, ideologicamente retrivo e artisticamente irrilevante (o peggio ancora inconsistente).

Proprio a causa della sua insipienza, suscitano ancora maggiori perplessità i particolari interessi e consensi (per evidenti motivi di carattere ideologico, mi viene da supporre) che gli furono riservati anche da una fetta consistente della critica negli anni in cui fu girato e distribuito in sala, e ancor più indispettito stupore, i riconoscimenti ufficiali che gli furono tributati.

Passi che sia stato invitato a partecipare in concorso al Festival di Berlino del 1960 (gli abbagli delle commissioni  selezionatrici sono spesso macroscopici, e da solo questo fatto non sarebbe sufficiente a farci gridare allo scandalo) ma mi sembra assolutamente inconcepibile (e rivisto a posteriori il disagio si amplifica ancora di più) che il film sia stato insignito del premio OCIC, prestigioso riconoscimento della stampa cattolica (o anche questo è invece un “segnale” importante e non trascurabile su cui concentrare alcune riflessioni tutt’altro che benevole?) e che persino la FIPRECI lo abbia preso in considerazione, valutandolo con particolare, benevola magnanimità,  nel tener conto della “positività dei contenuti”, ma senza alcun accenno all’evidente faziosità del messaggio. 

Intendiamoci bene, non metto in discussione il per me deprecabile “punto di vista” adottato in questa circostanza (non concordo, ma non demonizzo a priori la scelta e ognuno è libero di esporre il proprio pensiero se lo fa con corretta cognizione di causa): è come viene sviluppato il processo narrativo e di rappresentazione visiva che mi fa un po’ imbestialire. Sono proprio le tesi sostenute  a gridare vendetta, indecentemente denigratorie e antistoriche, derivanti da un soggetto particolarmente settario e da una sceneggiatura altrettanto a senso unico (sorprende che quest’ultima sia stata opera di Brian Forbes, di solito più pertinentemente creativo con la scrittura, e poi diventato a sua volta un regista dal sensibile sguardo come nel delicato La stanza a forma di L, pellicola con molti punti di contatto – anche se un po’ meno efficace – con Sapore di miele di Richardson).

Guy Green, regista senza storia e scarsa personalità, è comunque il responsabile primario del risultato complessivo, perché non fa nulla per migliorare le evidenti carenze dello script, e ci regala una rappresentazione di rabbrividente piattezza, oltre che di altrettanto inerte sciattezza, ogni tanto ravvivata (si fa per dire) da improvvise impennate troppo melodrammatiche per risultare credibili, o semplicemente appassionatamente coinvolgenti.

Se dunque esteticamente il film non meriterebbe la benché minima attenzione, va purtroppo semmai ricordato per il negativo che ha in sé, e che riguarda al di là della deprecabile forma della rappresentazione (prolissa e disadorna), proprio la sostanza dei contenuti, al servizio totale di un conservatorismo culturale  e “politico” davvero disturbante, come ho già accennato, perché questo è un cinema che volutamente si fa portavoce del potere, se ne mette al servizio anche propagandistico, e per questo è doppiamente condannabile (le sue dichiarate “ambizioni” pseudo informative  che indicherebbero la volontà di voler raccontare una differente verità delle cose,  risultano infatti tutt’altro che autonome e “indipendenti” e assomigliano molto a certe “inchieste televisive” di parte o ad altrettanti reportage pilotati che ci vengono periodicamente propinati dalla “veline” – come le definiva Saviane – dell’egemonia dominante).

Il punto di vista degli autori, è infatti quello del “crumiro” (e fin qui niente di male: se ne potrebbe discutere e dissentire, ma è lecito pensarla anche diversamente e ancor di più, cercare di rappresentare le ragioni oggettive di certi orientamenti, a patto però che il tutto sia realizzato con la necessaria onestà intellettuale), qui sposato in toto, davvero senza “se” e senza “ma”. 

Tom Curtis è un operaio fra i tanti, l’unico che ha una coscienza che si tenta di definire “oggettiva” e che completamente solo, ha il “coraggio civile” (si fa per dire) di non partecipare a uno sciopero organizzato dal sindacato per scopi non chiari (capita l’antifona?) se non addirittura programmato  dietro sobillazione di un misterioso individuo (sic!) che viene da lontano e del quale si saprà poi davvero molto poco, visto che ripartirà immediatamente per ignota destinazione, dopo il fallimento delle sue losche trame.

E’ dunque contro l’uomo Tom Curtis e la sua granitica  “coerenza morale”(??)  che si accaniscono i malanimi, che coinvolgono l’intera sua famiglia, oltre che i risentimenti, le feroci rappresaglie e l’isolamento anche verbale che si definisce in una vera e propria congiura del silenzio, degli altri, gli scioperanti, che qui vestono i panni dei cattivi per tutta la durata della pellicola, sino a una abbastanza cruenta, ma per fortuna non completamente “tragica” (ci sarebbe mancata anche questa) soluzione, o conclusione che dir si voglia che non anticipo ma che dovrebbe indicare chiaramente a chi va la palma della vittoria.

A scanso di equivoci, voglio ribadire ancora una volta che non è la posizione poco ortodossa sui rapporti di un operaio e la sua organizzazione sindacale (di scheletri nell’armadio ce ne sono e molti anche da questa parte, ed evidenziarli oggettivamente potrebbe persino essere propedeutico) all’interno della fabbrica, compresi i prolungamenti e le implicazioni esterne che ne derivano, che mi ha contrariato, anzi! Credo che poter ascoltare un competente  e documentato “suono dell’altra campana” sarebbe stato legittimamente anche appropriato e soprattutto utile per una approfondimento critico della situazione (gli anni in cui si svolgono le vicende, contemporanei a quello della datazione della pellicola, sono ovviamente difficilmente paragonabili alla disastrosa condizione del lavoro dell’attualità, e per quanto riguarda l’Inghilterra si riferiscono a un periodo antecedente alla discutibile opera distruttrice posta in atto dalla devastante “cura Tatcher”). Potrebbero quindi essere tematiche interessanti e proficue anche adesso per farci davvero comprendere (se qualcuno le affrontasse con una visione aggiornata all’oggi) dove siamo arrivati e dove stiamo andando proprio sul fronte del lavoro, se trattate con la spregiudicata libertà dell’imparziale valutazione critica, e persino di grande rilevanza  politica (ma nel senso “nobile” del termine), oltre che civile.

Purtroppo però questi film non si fanno mai per lo meno qui da noi (e non se ne facevano neppure una volta, come sta a dimostrare questo malriuscito tentativo un po’ maldestro, nemmeno nell’Inghilterra liberale del “welfare state” dei bei tempi andati, e quando si facevano  pretendono di essere un po’ anomali”, si mirava evidentemente a ben altri risultati, come appunto in questo caso: poi fortunatamente laggiù qualcosa è cambiato, leggasi Loach  e Leigh, ma non solo, anche se sul fronte dell’occupazione e dei diritti è andata sempre peggio).

Posso dunque anche non scandalizzarmi (ci mancherebbe!!) per questa grigia e anonima epica del crumiraggio (anche se avendole vissute in prima persona queste combattive battaglie per la conquista di diritti  che adesso vorrebbero farci credere che non ci competevano, non posso probabilmente essere del tutto neutrale) o men che meno farlo per la contaminazione gangeristico-maccarthista, del resto non nuova, dell’avvio e del finale dell’opera.

Ciò che mi colpisce profondamente (o meglio mi offende)  e mi costringe a denunciarne la pericolosa matrice fascista del film (conta poco se consapevole o meno, se involontaria o appositamente costruita a tavolino, come però è facile immaginare che possa essere accaduto) è la rappresentazione della massa operaia che ne viene fuori.

Per fare un raffronto con un’altra opera non del tutto edificante sotto il profilo della morale, anche i compagni di Terry Malloy erano gregge  in Fronte del porto di Kazan, soprattutto quando si lasciavano calpestare senza opporre resistenza da Frendly, e lo diventavano ancora di più quando, negli sviluppi successivi di un “ipotetico percorso” di crescita delle coscienze,  svincolati dal capestro della necessaria ubbidienza all’agit-prop originario, accompagnati dalla benevola benedizione di un prete, seguivano passivamente, dimostrando di non aver assimilato la lezione, un nuovo discutibile “capo”. Kazan per lo meno però (al di la della differente statura della rappresentazione formale di tutt’altra levatura) approdava almeno a una visione, indubbiamente un po’ filistea, ma comunque collocata dentro l’appassionata struttura e la coerenza stilistica di  un collaudato filone “di denuncia”, che nel caso precipuo poteva risultare magari anche parziale e grossolano, ma che si riscattava se non altro,  per il tratteggiamento crudo e forsennato delle vicende e dei loro esiti, utilizzando monumentali psicologie contrapposte e ben recitate.

Qui invece, sono solo “rose e fiori” (ma da una parte e basta però e tutt’altro che equamente suddivise). Siamo così costretti ad assistere impotenti al sottofondo troppo buonista di una classe di imprenditori da libro Cuore rappresentata dal signor Martingale e dai suoi consoci, che sono industriali solo all’apparenza egoisti e interessati (del resto tirano l’acqua al proprio mulino, no? e come non riconoscere loro questa prioritaria prerogativa?), ma si dimostrano invece all’atto pratico comprensivi e disposti a cedere, e alla fine persino un po’ impauriti dalle minacciose “oppressioni” della controparte ingorda, rappresentata, come si è visto, dalla massa incosciente, perché è proprio lei che nel film è gregge e teppa.

Gregge quando si lascia manovrare e ingannare a piacimento (ma si pente dopo la mozione degli affetti gridata da un bellimbusto pavido e in cerca di facili avventure);  teppa  invece quando perseguita senza pietà e pervicace rancore, il povero Curtis, spingendolo così quasi sull’orlo della follia.

I melodrammatici interpreti, fattivamente coinvolti nel loro richiesto “gioco delle parti”,  rispondono ai nomi di Richard Attemborougth, della nostra Annamaria Pierangeli (qui solo Pier Angeli), di Bernard Lee e di Michael Craig (al quale, se non erro, si deve anche imputare la pesante responsabilità del soggetto, buttato giù con la collaborazione di Richard Gregson).

Non credo davvero che  sia necessario aggiungere molto altro, arrivati a questo punto, per giustificare il  mio inappellabile, definitivo “pollice contro”!!!!

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