Regia di Yulin Liu vedi scheda film
Far East Film Festival 19 – Udine.
«Il ciclo della vita segue lo stesso percorso dei fiori: come loro, fiorisce e poi appassisce».
Oggi la comunicazione è fondamentale. Siamo tutti connessi, virtualmente così vicini eppure anche spiritualmente sempre più lontani. Incredibilmente, rischiamo di avere un rapporto migliore con chi non vediamo mai, rispetto a chi trascorre con noi il tempo più prezioso.
Adattando il romanzo One Sentence Worth Ten Thousand scritto Liu Zhenyun, la giovane regista cinese Yulin Liu compie un miracolo narrativo, mostrando quelle crepe che possono sbriciolare le relazioni più intime e centrali, descrivendo le distanze frapposte tra uomini e donne, utilizzando un realismo asciutto che colpisce nel segno per i risultati - emotivi, sociali e umani - che produce.
Dopo dieci anni di matrimonio, il fuoco sacro dell’amore tra Niu Aiguo (Hai Mao) e Pang Lina (Qian Li) è esaurito. Tra mille difficoltà, lui vorrebbe far tornare tutto come prima, anche pensando al bene della loro bambina, ma lei ha ormai la testa altrove.
Intorno a loro, nascono altre coppie, ma basta già il matrimonio per cambiare la percezione dei rapporti.
In tutte le cose che portano felicità, gli inizi sono facili e l’entusiasmo contamina l’aria. Le complicazioni arrivano dopo e non c’è nessuna formula magica per risolvere i problemi, spesso frutto di un lungo percorso e impossibili da sbrogliare a comando.
In fondo, basterebbe possedere la capacità di parlare, ma non tanto per farlo, quanto perché lo vogliamo. Si capisce subito quando un’azione è frutto di un goffo tentativo e quando è sentita, l’animo trasmette radiazioni, gli occhi si piegano, l’emozione fa il suo corso.
Detta così, sembra facile ma Yulin Liu è conscia che non lo sia e il suo film diventa un paradigma delle difficoltà di aprirsi, dell’impossibilità di trovare facili soluzioni, semplicemente, a volte è troppo tardi, la disperazione prende il sopravvento, ma nell’infinito crocevia della vita, basta un’azione casuale, come un telefono che squilla nel momento più opportuno, per far svoltare il fato, per mettere una virgola laddove stava per concretizzarsi un punto (e a capo).
Someone to talk to è un’opera forbita, leggera e profonda, innervata di dolore e di desiderio, come un libro aperto, che, per paradosso, comunica più di quanto possano/sappiano/vogliano fare tutti i personaggi, fornendo una trafila di appositi gradi di separazione.
Il percorso è pulito ma ben argomentato, ossessioni e piaceri sono tutti percettibili, tra frecciate continue, il ricorso alla fede, fuga e rincorse ma poi già la prima scena dice tutto e con grande eleganza: una coppia vuole dirsi addio, ma i protagonisti, che ancora non conosciamo, sono i successivi e promettono l’amore eterno come se quanto appena udito non li potesse mai riguardare da vicino.
In fondo, la vita è una ruota, con passaggi obbligati che prevedono momenti di euforia e altri bui, il confine tra amore e odio è labile, la riflessione è aperta, disposta a cambiare le convinzioni a patto che ci sia la volontà di farlo.
Questo racconto vissuto e partecipativo è avvalorato una volta di più dalla gestione della regista, che non prende una posizione forzatamente privilegiata a favore di un sesso: l’esposizione delle colpe è movimentata a seconda dei frangenti, le risposte secche semplicemente non esistono e le responsabilità non possono risiedere tutte sulla stessa sponda.
Comunque sia, rimane pur sempre la speranza, con un segnale che può riaccendere la ragione e arrivare quando meno lo aspetti, d’altronde nelle relazioni umane non ci sono vittime e carnefici designati a tavolino ma solo occasioni e crocevia, per una ragnatela ramificata che non prevede formule matematicamente risolutive.
Una sintesi esemplare, degna di palme (Cannes) e leoni (Venezia), sempre d’oro colato.
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