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Una preghiera prima dell'alba

Regia di Jean-Stéphane Sauvaire vedi scheda film

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La recensione su Una preghiera prima dell'alba

di pazuzu
6 stelle

Guidato dalla volontà di non farsi corrompere dalla tentazione di spettacolarizzare alcunché, Sauvaire sceglie uno stile crudo e grezzo, con la camera a mano sempre in movimento e pronta ad appiccicarsi al corpo di turno, in un film lontano da ogni compromesso ma anche limitato dal proprio essere esclusivamente fisico.

 

La reclusione in una prigione tailandese è come un biglietto di sola andata per un girone dantesco dell'inferno: lo sa bene Billy Moore, che nel 2007 in quel paese si arrangiava grazie alla boxe, e di tanto in tanto arrotondava piazzando in locali notturni l'eroina che non decideva di tenersi per sé. Arrestato dalla polizia del posto dopo un'irruzione in casa che lo colse impreparato, senza lasciargli il tempo di nascondere o gettare nulla, trascorse tre anni in un carcere di massima sicurezza vicino Bangkok.
A Prayer Before Dawn, del francese Jean-Stéphane Sauvaire, è tratto dal libro omonimo che lo stesso Moore scrisse dopo la scarcerazione, avvenuta nel 2010 grazie ad un'amnistia reale, e si propone come un'immersione totale nella brutale realtà di un posto nel quale anche i diritti umani più elementari sono sospesi, e nel quale la convivenza forzata in grosse celle senza neanche una brandina che costringono i reclusi a dormire ammassati uno sull'altro porta a risse continue, talvolta col morto: per la dose giornaliera - che arriva sempre e comunque, magari anche dai carcerieri (Vithaya Pansringarm, unico attore professionista oltre al protagonista Joe Cole) -, ma anche solo per essere andati a far pipì nel momento sbagliato, o per un paio di sigarette, unica merce di scambio per chi non ha soldi per contrattare.

 

 

Sauvaire decide di eliminare ogni orpello, riducendo al minimo anche le informazioni sulla vita passata di Moore, e si concentra esclusivamente sull'impatto devastante che questa esperienza ha sulla sua psiche di tossicodipendente, costretto a cercare di sopravvivere in condizioni estreme in un microcosmo iperviolento senza aver nemmeno la padronanza della lingua: la scelta di non sottotitolare i dialoghi svolti nella lingua locale, che sono poi la stragrande maggioranza, ha proprio lo scopo di favorire uno stordente stato di empatia con il protagonista da parte di un pubblico che si vuole travolto, scioccato e disorientato quanto lui. Non sono d'altronde le parole il mezzo espressivo preponderante in una simile situazione, quanto piuttosto i corpi, quasi sempre seminudi, quasi sempre in tensione, e quasi sempre schiacciati l'uno sull'altro, feriti, insanguinati; e quasi tutti tatuati, come a voler raccontare ciascuno la propria vita in un colpo d'occhio, lasciando Moore ulteriormente solo con il suo pallore muto.
La scoperta all'interno del carcere di una sezione pugilistica gli indicherà la strada per poter alzare anche lui la voce, e trovare una dimensione che lo salvi da una deriva altrimenti prossima e inevitabile.

 

 

Guidato dalla volontà di non farsi corrompere dalla tentazione di spettacolarizzare alcunché, Sauvaire sceglie uno stile crudo e grezzo, con la camera a mano sempre in movimento e pronta ad appiccicarsi al corpo di turno, in un film lontano da ogni compromesso ma anche limitato dal proprio essere esclusivamente fisico, caratteristica che lo porta ad apparire - alla lunga - monotono e ripetitivo nella prima parte, e, per conseguente paradosso, sbrigativo nella seconda, con la sezione dedicata alla Muay Thai (la boxe tailandese) che sembra un po' tirata via, come se a Sauvaire, più che gli allenamenti ed i combattimenti in sé, interessasse il fatto stesso che Moore (quello vero, che appare nel finale nel ruolo del proprio stesso padre) avesse trovato la forza di rimettersi in gioco ed affrontarli.

 

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