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Cuori puri

Regia di Roberto De Paolis vedi scheda film

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La recensione su Cuori puri

di MarioC
7 stelle

Cinema che aspira ad un’invisibilità che nasca dalla mancata esposizione furente di tesi, cinema che si concentra su volti, espressioni, piccoli e grandi scarti dell’anima, movimenti convulsi che invano cercano una composizione, cinema che addirittura rinuncia alla riconoscibilità dell’ambientazione (Roma la individui dallo slang, dalle inflessioni, ma è fondale anche esso invisibile, mera ipotesi di città, sogno lontano, essendo le vicende narrate concentrate e compresse in una periferia che nulla concede alla quotidianità routinaria della metropoli), Cuori puri è esordio di tenuta e fattura alta, racconto di formazione (e progressiva deformazione di principi, idee, ideali) che dà respiro e profondità alla complicata, spesso negletta, capacità di esposizione dei giovani registi italiani.

 

 

Il racconto si apre e si chiude con una fuga, e relativo inseguimento. A marcare e definire distanze incolmabili, ad introdurre una possibilità di incontro, di un abbraccio, di (letteralmente) un amplesso, che è delicato crinale e passaggio all’età adulta, nonché teorico ponte verso quella falsa (auto)figurazione della realtà di cui, spesso, la maturità si fa carico. La scena finale, bellissima, sospesa, sognante il giusto, sporca e dolente il necessario, è in effetti un abbraccio. E’ una ricomposizione delle lontananze, è urlo soffocato di presenza, di reciproco accoglimento. Non nelle braccia del Signore, ma in quelle terrene del ragazzo quasi perduto, Agnese (Agnese di Dio era un’opera teatrale successivamente trasposta in un film di Norman Jewison) si adatterà (forse) alla vita, prenderà cognizione della irreversibilità del sangue virginale, accetterà la carne, il desiderio, l’amore, si farà creatura terrena, donna tra gli uomini, figlia di madre soffocante ma sulla via della resa, espressione di una devozione che accetta ed accoglie in sé le contraddizioni (le parole del prete, interpretato da un magistrale Stefano Fresi, sono bellissime ed alte, ma come incistate in una visione unidirezionale che fa di Dio, molto parzialmente e scolasticamente, il navigatore che ricalcola il percorso e ti riconduce sempre a casa – navigatore come portato di un’efficienza indubbia ma anche quale rappresentazione plastica della incapacità/impossibilità di valutare e superare gli ostacoli, i sassi lungo il cammino, le deviazioni inaspettate, l’amore ad esempio, l’attrazione, la vita nella sua complessa inaccessibilità-).

 

 

Al di là delle tematiche (nemmeno originalissime ma trattate con pregnante senso del racconto, a cominciare dalla ricordata ambientazione deviante e antimodaiola), l’esordiente De Paolis manifesta un proprio stile forte e personale. C’è molta macchina a mano, c’è l’indugiare sui volti e sulle espressioni, c’è il trattare la tematica della marginalità con scelte narrative mai banali (marginale è Agnese, ingabbiata in una possibile scelta religiosa che è imposizione dall’alto o dall’interno di una famiglia – madre, figlia – ridotta all’osso e comunque espressione di quelle che in ambito giuridico e psichiatrico si definiscono istituzioni chiuse, un po’ come la Chiesa, famiglia allargata e pure instradante; marginale è Stefano, i suoi occhi alla ricerca di impossibile innocenza, il suo microcosmo familiare, genitori distanti e persi in difficoltà economiche, madre affettiva, padre assente), c’è l’attenzione ai piccolissimi gesti che rappresentano un mondo soprattutto interiore (Stefano che si rifiuta di vendere droga al minorenne, così contravvenendo alle regole d’ingaggio del “datore di lavoro”, Stefano ed i rom del campo, così simili nella irrilevanza sociale, separati da una rete metallica, uniti dalla rabbia sorda del disadattamento), c’è il gusto del dettaglio che spalanca porte di bellezza terrena (il padre che, dopo una furente lite con il figlio, gli versa del vino, così riportando in primo piano la muta apoditticità dei vincoli del sangue; Agnese che tenta di lavare via il sangue con altro liquido organico, la madre della ragazza che, egoisticamente, si rilassa non appena ricevuta la conferma della verginità della figlia; Stefano che, seguendo il vento della propria cangiante tranquillità interiore, consente o nega ai rom la partita di pallone nel parcheggio). C’è, in una parola, un’idea di cinema già matura, non incline ai compromessi, potente nella sua espressività.

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