Se c'era bisogno di una conferma le notizie che arrivano dal festival di Cannes ci dicono che il cinema italiano, specialmente quello realizzato dalle nuove generazioni di autori predilige realtà limitali e periferiche, per lo più metropolitane ma parimenti lontane e dai luoghi simbolo delle istituzioni cittadine, e da quelli deputati alla liturgie della mondanità più elitaria. Se analizziamo il periodo che va dall'uscita nei cinema di "Non essere cattivo" di Claudio Caligari (2015) a quello coincidente con la presentazione alla croisette di "Fiore" di Claudio Giovannesi (2016) si vedrà che accanto ai titoli più commerciali esiste un vero e proprio filone costituito da una serie di titoli che raccontano una gioventù più complessa e problematica di quella spensierata e leggera ritratta dalla nostre cine commedie. All'interno di quella che è diventata una vera e propria tendenza pensiamo di poter dire che la discriminante capace di scongiurare il rischio di una strisciante omologazione siano la scelta dello spazio e il modo di occuparlo da parte della macchina da presa. In questo senso "Cuori puri" di Roberto De Paolis appare addirittura esemplare, perché, a fronte di una storia che presenta una trama (la storia d'amore tra Stefano e Agnese) , dei personaggi e degli ambienti, in tutto o quasi simili a quelli di altri lungometraggi, d'altro canto dimostra di non farsi prendere la mano dalla voglia di essere onnicomprensivo (come succede per esempio a al Sergio Castellitto di "Fortunata"), concentrando la sua attenzione su quello che accade nell'area circostante al parcheggio del supermercato vigilato da Stefano, il protagonista maschile, nella quale convergono e si ritrovano a coesistere - non senza difficoltà - la comunità rom, alloggiata all'interno del campo nomadi che si affaccia - diviso da una rete - sulla piazza del posteggio, e il centro di accoglienza, dove, in qualità di volontaria Agnese e sua madre cercano di rendere concreti gli insegnamenti ricevuti dalle abitudinarie frequentazioni religiose. Indicativa a tal proposito è la sequenza d'apertura, quella che ci introduce alla conoscenza dei protagonisti attraverso il convulso inseguimento con il quale Stefano riesce a fermare Agnese, rea di aver rubato un telefonino nel negozio in cui il ragazzo si occupa della sicurezza e dal quale (lo apprendiamo più tardi) verrà licenziato per aver lasciato andare la ragazza.
Mediato quel che basta dalla sovrastruttura scenica (definita dall'uso di luci naturali e di uno stile documentaristico) e con la volontà di rimanere attaccato ai corpi che si muovono davanti alla mdp, l'incontro tra i due ragazzi avviene con approccio diretto e convulso, in cui è l'occhio del regista a inseguire i personaggi e non il contrario. Lungi dall'essere innovativo (la lezione dei Dardenne ha fatto strada soprattutto tra i cineasti dell'ultima ora), il dispositivo di cui abbiamo appena scritto è però efficace poichè nel corso della visione, diventando un tutt'uno con la vita dei protagonisti (o se volete, rendendosi invisibile) fa sì che ciò a si assiste non dia mai la sensazione di essere il frutto di un calcolo premeditato, stabilito a tavolino secondo una scaletta concordata con il resto della troupe ma altresì, sia il frutto delle circostanze e soprattutto la conseguenza dell'istintività dei due interpreti, (vale la pena ricordarli per la loro bravura SimoneLiberati e Selene Caramazza) i quali, calati nel ruolo con aderenza stanislavskijana, riescono a diventare "corpi sociali", credibili al di là dei tecnicismi del mestiere che, pur presenti, vengono sovrastati da un'istintualità e un'energia davvero rare. E' dunque per questo che l'amplesso tra Stefano e Agnese, per il mix di pathos e carnalità che riversa sullo schermo, rende merito alla bellezza dell'atto come non lo si vedeva in sala dai tempi de "La vita di Adele".
Ed è sempre per questa ragione che la relazione tra i due ragazzi, pur incrociando fenomeni (quello dell'immigrazione come pure dell'impoverimento delle categorie sociali meno abbienti del nostro paese) e temi (accoglienza e intolleranza su tutte) anche drammatici della nostra contemporaneità, non diventa mai ostaggio delle ideologie e del paternalismo che troppo spesso passano per essere elementi distintivi di un cinema impegnato e militante. Nel fare ciò l'esordiente De Paolis è supportato da una sceneggiatura (scritta a più mani) che trova la sua quadratura negli equilibri derivanti dalla specularità delle forze messe in campo. Così, se da un lato, attraverso la frequenza della comunità parrocchiale da parte di Agnese abbiamo la dimostrazione di quanto sia forte la presa del catechismo religioso sul singolo individuo (è infatti la paura di peccare e il senso di colpa che da esso deriva a rendere infelici le giornate di Agnese), dall'altro, mediante il pragmatismo di Stefano, il quale, ogni giorno si ritrova da solo a lottare per la propria sopravvivenza, troviamo la conferma (di segno negativo rispetto al punto precedente) di quanto la determinazione e il pragmatismo sia più efficace di qualsiasi catechesi. Allo stesso maniera succede per le implicazioni socio culturali messe in campo attraverso la presenza conflittuale dei rom,, da una parte tirati in ballo come capro espiatorio quando si tratta di addossare le colpe di azioni altrimenti non sostenibili da chi le ha "commesse" (e qui ci riferiamo a ciò che accade nella sequenza finale) e, dall'altra salvaguardati da una correttezza politica che è lo specchio della cattiva coscienza di chi non riesce a dare seguito in maniera concreta alle politiche di ospitalità poste in essere nelle aule di governo. Presentato alla Quintane des Realisateurs, "Cuori puri", con la forza e il romanticismo delle sue verità si candida a essere uno dei modelli da seguire per tentare di vincere la disaffezione del pubblico nei riguardi del nostro cinema d'autore, Certo, non è l'unico, ma sarebbe un peccato che il suo esempio passasse inosservato.
(pubblicata su ondacinema.it)
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