Regia di Roberto De Paolis vedi scheda film
«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio». Non basta indossare una t-shirt (colorata …) sulla quale è impressa tale scritta né aderirne al rigido dettame – più o meno convintamente, più o meno con costrizione – per potersi d(efin)ire, puri di cuore. Oltre le gabbie e i comandamenti dei fervidi canoni religiosi, oltre l'innesco esplosivo del dannato senso di colpa, oltre gli steccati bianchi della (auto)esclusiva collettività: l'opera prima di Roberto De Paolis s'immerge con passione e intelligenza in (conta)minate zone di conflitto – la periferia romana, i campi rom e i rifugiati, la crisi e il lavoro (che non c'è), il volontariato, la chiesa – restituendone e filmandone, con coerente, credibile realismo, il p(r)es(s)ante carico di ombre e contraddizioni, vitalità e miserie, (svuotamento di/delle) identità e mollezza delle istituzioni. Terre di nessuno, pericolosamente contigue tra loro e con il perenne rischio di deflagrare; scarne e scarnificate di scopo, senso, coesione socioculturale. Persino di colore (e calore): se la messa in scena è minimal, con la mdp attaccata e addentro a volti e corpi e sensazioni/sollecitazioni naturali, la fotografia riflette (senza orpello alcuno) lo spaesamento e le paure, il dislocamento individuale e comunitario, il deserto urbano (e) “periferico”. Eppure luoghi in cui albergano, al di là di ogni impurezza e inquinamento, al di là di un presente saturo di incertezza e di un futuro nemmeno preso in considerazione, desiderio e sentimenti e pulsazioni: Cuori puri, dopotutto, non è che una storia d'amore tra due anime diverse (e differenti, contrapposte, per indole, provenienza, appartenenza famigliare e sociale); due “impuri” (uno è banalmente razzista, con amicizie criminose e genitori irresponsabili; l'altra “tradisce” le volontà di un cattolicesimo implacabile e di una madre ingombrante e invadente) alla ricerca (e alla rincorsa, letteralmente) di sé, i cui passi finiscono per incontrarsi/scontrarsi. Una relazione, come si conviene, irta di ostacoli e incomprensioni, clandestina e inserita in un contesto, umano e personale, in divenire. Ecco, non un amorazzo giovanile e tamarro, ammiccante, alla moda (di oggi) così come neppure “soapoperisticamente” drammatico: a De Paolis interessa l'intessitura di questa relazione come dispositivo per una più ampia rete di contenuti e pensieri compatta e impermeabile a furberie e carinerie, a scappatoie di sorta, ma soprattutto alla (sovra)esposizione di giudizi e facili moralismi (oh, quanto facile sarebbe … vero cinema italiano imperante?!), enfasi isterica e retorica spiccia. Alla precisa, convincente costruzione delle psicologie e delle interazioni (cui contribuiscono le performance degli attori: sugli scudi i giovanissimi Simone Liberati e Selene Caramazza, volti interessanti e sempre credibili; ottima pure Barbora Bobulova mentre Stefano Fresi fa troppo … il Fresi pur con la tonaca) corrisponde un'omogeneità e una solidità di sguardo preziose, necessarie per la resa complessiva. Le riprese e i movimenti negli spazi, negli interstizi fra corpi e vibrazioni, l'organica configurazione dei personaggi, segnano uno scarto tra sovrabbondanza/untuosità della materia (in termini di narrazione, tematiche, estetica, rappresentazione) e il rigore della messa in scena: in Cuori puri l'osservazione realistico-documentaristica si fa sostanza e racconto, nucleo pulsante e vivo di un modo di concepire/realizzare Cinema di cui abbiamo bisogno. E pazienza per le (inevitabili) ingenuità tipiche delle opere prime e una divagazione di troppo (la faccenda legata all'accusa di stupro): l'ultimissima scena, ancora una corsa, chiude il cerchio e i conti in maniera splendida.
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