Regia di Ziad Doueiri vedi scheda film
Chi può raccontare la storia convinto di stare dalla parte giusta? Se basta un “cane “ per arrivare sull’orlo della guerra civile,c’è qualcosa che non funziona e chissà se mai potrà funzionare ancora.
Presentato in anteprima alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia in Selezione Ufficiale, premiato con la coppa Volpi all'attore Kamel-El Bash, L’insulto è un film che non lascia indifferenti.
Critiche negative, o non del tutto entusiastiche, se ne raccolgono qua e là sui siti web specializzati, ma il pubblico medio, quello che al cinema chiede film onesti, che facciano riflettere e, torniamo sempre a Tarkovski, film fatti per “exprimer, c’est-à-dire expliquer à soi-même et à tout notre entourage pour quoi l’homme vit, quel est le sens de la vie…” quel pubblico è unanime nel giudizio positivo e non scappa frettoloso, resta in poltrona a meditare sui titoli di coda (bisognerebbe inserire questo parametro fra gli indici di gradimento di un film).
La storia si svolge a Beirut, protagonisti Toni Hanna (Adel Karam) che lavora in un garage di sua proprietà e Yasser Abballah Salameh (Kamel El Basha) un ingegnere civile palestinese, profugo da anni, capomastro in un cantiere stradale.
Tutto comincia con “Sei un cane” gridato da Yasser a Toni che, rabbiosamente, ha boicottato il suo lavoro, rompendo a colpi di mazza il tubo dell’acqua che Yasser ha fatto impiantare sul suo balcone per sanare la perdita che finiva in strada.
“La strada è larga, passino dall’altra parte” gli urla Toni, e già questo, se non bastasse il gesto che compie, basterebbe a classificarlo.
La reazione di Toni è eccessiva, violenta, l’insulto di Yasser, che non a caso ha la faccia da buono mentre l’altro è sempre torvo, ingrugnito, non è stato particolarmente infamante, eppure, incredibile a dirsi (ma non dimentichiamo dove si sta svolgendo la vicenda), ne nasce un contenzioso che finirà in tribunale, con tre gradi di giudizio e scontri di piazza che quasi scoppia una seconda guerra civile dopo quella che, tra il 1975 e il 1990, devastò il Paese che ancora ne porta ampie cicatrici nei quartieri popolari confinanti con i campi profughi.
Toni è un cristiano libanese, un falangista nostalgico di Gemayel. Tutto in lui, gesti e parole, cospira a farne un personaggio negativo, antipatico, una di quelle figure che il pubblico etichetta senza pensarci troppo come cattivo. Yasser, al contrario, è di quelli per cui si parteggia subito, benchè sia lui ad insultare e l’altro ad essere l’offeso.
Una frase del film non dovrebbe sfuggire, detta da Toni a proposito dei Palestinesi e costata il carcere al regista di ritorno nel suo Paese: “ Tutti sono per loro, e per gli altri non è rimasto niente”.
“Accusato di collaborazionismo con il nemico israeliano, è stato trattenuto per un'ora e mezza all'aeroporto di Beirut. Sequestrati i suoi due passaporti, poi restituiti” hanno battuto le agenzie a settembre 2017.
Toni vuole scuse formali per l’insulto, Yasser non è disposto a farne. Convinto però dal datore di lavoro che lo stima e lo fa lavorare (e per un palestinese dei campi non è così facile) sta per chiederle quando l’altro rovina tutto con uno scatto d’ira verbale tanto violento quanto inspiegabile: “ Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti ”. Un cazzotto allo stomaco di Toni e alcune costole rotte spostano la questione sul piano penale, Yasser ora se la vede brutta.
Subentra anche un'interruzione di gravidanza della moglie di Toni con problemi di sopravvivenza per la neonata, nulla manca e il crescendo si fa rossiniano, se è consentito dirlo in un simile contesto. Quello che lascia increduli, sbigottiti, incollati allo schermo per vedere come possa finire una cosa del genere, è la capacità di Ziad Doueiri di coinvolgere il pubblico spiazzandolo continuamente.
D’accordo, qualche trovata è ad effetto , l’accusa e la difesa, avvocati padre e figlia sembra un tantino ad hoc, il conflitto generazionale è cosa che ha l’aria di un riempitivo, come la presenza femminile, tirata via con un risalto vicino allo zero. Per non parlare del finale, troppo edificante.
Difetti ne ha, ma L’insulto è come una diamante grezzo, resta il valore del nucleo e via le scorie, presto dimenticate.
Quello che seduce è il lento disvelamento del retroterra di Toni, la sua tragedia, la strage dimenticata, il nome di una città massacrata, Damur, sepolto da onde più alte che l’hanno sommerso nella coscienza dei popoli.
Pensare a Srebrenica è d’obbligo, come a tante storie piccole di guerre troppo grandi, stermini dimenticati, rimossi, non arrivati alla ribalta di quel grande palcoscenico mondiale creato dai media per cui la storia è quella che raccontano loro. Reduci o abitanti di territori dove ormai si è perso il bandolo della matassa, Toni e Yasser sono esemplari in vitro, povere cavie umane su cui la Storia compie i suoi esperimenti.
Chi può raccontare le loro storie convinto di stare dalla parte giusta? Se basta un “cane “ per arrivare sull’orlo della guerra civil,e c’è qualcosa che non funziona e chissà se mai potrà funzionare ancora.
Il tubo sul balcone di Toni intanto è stato messo a posto, Toni ha capito e pure Yasser. Siamo noi che non capiremo mai…
Ma se la storia la capiranno i posteri, per capire il film può servire il punto di vista del regista:
“Non è un film sul passato, ma sul presente. Su un mondo che ormai è polarizzato, libanesizzato, israelizzato, palestinizzato. Siamo sempre più costretti a prese di posizione radicali. Quando si è verificato il massacro di Damur (furono uccisi 582 civili cristiano-maroniti dai palestinesi del campo profughi libanese di Tell al-Za’tar come ritorsione dell’uccisione di più mille palestinesi da parte delle Falangi cristiano-maronite a Qarantina, era il 1976 – ndr) avevo 13 anni: e ricordo come reagì il mio mondo, non erano stupiti. Io ho usato il passato come uno stratagemma drammatico, ma quest’opera parla di oggi...
Ho riscritto molte scene dopo gli attacchi della destra e dei propalestinesi contro il mio film The Attack. Quegli stronzi mi hanno attaccato pesantemente, oltre l’immaginabile e il tollerabile, così ho deciso di rispondere con il cinema. Sento ancora addosso la durezza delle parole della sinistra palestinese, anche di miei colleghi. Lì ho capito che avrei sempre combattuto loro e quella mentalità, ora e ormai è una questione personale. Loro non sapevano e non sanno nulla della mia vita, del mio passato, della mia famiglia, dei miei cugini morti per la causa palestinese. Non smettono, e neanche io. Loro mi hanno dichiarato guerra e io non mi sottraggo e questo film è una risposta a quella violenza, a tutto ciò che mi ha offeso, ferito.
(i brani dell’intervista provengono da Rolling Stone.it).
www.paoladigiuseppe.it
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