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The Last Day of Summer

Regia di Tadeusz Konwicki vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Last Day of Summer

di lostraniero
10 stelle

Lei gli dà un’arancia, lui la ripaga con pietre d’ambra.

Non molti i film che possono vantare una similitudine/esposizione tale con la scena in cui vengono girati. Altrettanti meno quelli che sostengono una lacerante riflessione politica, sotto delle mentite spoglie così larghe d’enigma.

Al cospetto di questo “Ultimo giorno d’estate”, prova definitiva della sensibilità in levare dell’arte del polacco Tadeusz Konwicki, si può solo arpeggiare d’ossimori. O vedendo una sorta di ‘surrealtà geometrica’ che riconsegna intatta la piroetta bergsoniana sul tempo della coscienza e sul tempo degli orologi, o giurando e spergiurando di aver intravisto – nel bianco e nero di questo film – dettagli infinitesimali che agguantano alla fine un‘astrazione concreta, tanto arida quanto benevola.

“Mi piacerebbe quindi che le parole e l’ascolto che si intrecceranno qui assomiglino all’andare e venire di un bambino che gioca intorno a sua madre, che se ne allontana, poi ritorna verso di lei per portarle un sasso, un filo di lana, tracciando in questo modo intorno ad un centro sicuro tutta un’area di gioco, all’interno della quale il sasso, la lana importano, in fin dei conti, meno del dono che con essi viene fatto”. Roland Barthes un po’ viene in aiuto al potenziale spettatore di questo misconosciuto capolavoro di quasi sessant’anni fa; c’è un problema di limite, di soglia, di margine che è fine ed è anche soltanto lato del mondo. Questo è chiaro; perché c’è una troupe cinematografica, nella fredda estate del 1957, che sta disegnando – tra le bianche sabbie della zona balneare di Leba – il perimetro di una avventura dell’anima. Questa esperienza può anche apparire sobria, talvolta lieve ed insignificante, ma porta dentro di sé una condensazione di temi che fanno tremare i polsi; per il regista ma non solo per lui, diciamo per due intere generazioni di polacchi, il presente (l’infame azzardo delle cose certe) è una striscia di terra sospesa tra l’orrore senza fondo della guerra appena conclusa ed il vasto rompicapo di una dittatura del popolo che poi proprio del popolo non è. E, in questo palco dell’intimo contrasto, si susseguono – nascendo come per creazione onirica o per delirio cognitivo – tafferugli tra incidenti del passato e fidate persuasioni presenti, tra il varco della solitudine e la barriera dell’amore sessuale, tra es, io, superio e tutta la fauna freudiana che vi compiace. Insomma, un classico film ‘lei & lui’, che in realtà è affollatissimo di ombre, fantasmi e letture post-visione.

 

La protagonista, Irena Laskowska, la ‘Magnani di Malopolskie’, è una quarantenne che sta vivendo il suo ultimo giorno di vacanza estive; si ritrova da sola, nuda come Venere, fuori dalle acque agitate del Baltico. Fa appena in tempo ad indossare il costume che nota l’improvviso apparire di un uomo, strano e taciturno, che sembra pedinarla. Tra approcci e rifiuti, confessioni e promesse di suicidio, nelle tarde ore del pomeriggio, la storia giungerà a compimento. Ambiguamente.

 

Due interpreti, la Laskowska – appunto –, e  Jan Manchulski che identificano anche fisicamente la maturità – con tutti suoi riti di compensazione e d’incertezza – da un lato e dall’altro l’eterna ed innocente confidenza della fanciullezza, piena solo di sé e capace di immaginare un mondo fatto di nulla, bastante anche per nutrire una relazione e proclamare l’amore.

Ma dietro quello che sembra uno dei tanti ‘brevi incontri’ di cui è costellata la cinematografia internazionale di quell’epoca, muove il suo corpo goffo la dialettica con la storia. Di sé e dell’umanità intera. La presenza dei caccia militari che segnano il cielo di bianche e rumorose scie, sono tensioni emotive che legano il pericolo imminente (per un attimo, l’impressione chiara è che siamo in presenza di uno scenario apocalittico, di attacco nucleare in corso e che quindi non vi sarà altra scena al di fuori di quella per i due protagonisti), con la perdita già passata (il marito della donna era un pilota, scomparso in un’azione di guerra). Ed appaiono così, cioè proiezioni che ‘espongono’ un gioco di verità ma che al contempo ‘omologano’ la realtà ad una passione interna, molte delle pantomime che i due inscenano lungo le dolci dune comprese (‘oppresse’) tra le acque del lago Lebsko e quelle baltiche. Due figure che giocano con lo spazio, con le prospettive, con la profondità dell’orizzonte (magistrale, in questo senso, l’uso dello ‘spostare’ il baricentro dell’inquadratura, facendo allontanare od avvicinare velocemente gli attori), che restano aggrappati a quella poco densa e mutabilissima terra carbonata dal calcio e sfumata sulle carezze del vento. Due spiriti Imprigionati dal cielo, mai come in questo film elemento irrequieto (l’improvviso temporale, il freddo che si addensa nel pomeriggio) e quasi ostile (le evoluzioni aeree dei caccia, l’anodino bagliore lungo la panoramica marina), e stretti dall’elemento liquido.  Una funzione simbolica del paesaggio che, unita alla nostalgia di fondo della tessitura filmica, cerca quanto più possibile di farci apparire i contorni della ‘forma del nulla’; una difficoltà più volte enunciata a ritornare ad una normalità quotidiana (la donna ripete spesso, forse anche a se stessa, la necessità di prendere un treno per rientrare in città), l’uso di oggetti scena che sono detriti di vite e di epoche andate (casse di legno, stracci, addirittura bossoli di mitraglia contraerea!), una lunga discesa, sempre più lacerante, nei vuoti esistenziali dell’uomo. Film enigmatico, si diceva più sopra, perché sull’ultima inquadratura non è innaturale chiedersi se abbiamo anche assistito alle ultime ore di una suicida, che ha proiettato sullo schermo di quell’isolamento naturale, il fantasma della sua coscienza. Facendolo diventare carne per la macchina da presa. Tentando di vivere, cercando di morire.

 

Un film eccezionale, che – almeno così lo leggo – se chiude alla grande la stagione del cinema polacco concentrato sui temi dominanti del dopoguerra (gli orrori del conflitto, l’eroismo ed i tradimenti, la storia come fenomeno del passato che condiziona il presente), apre a mille e passa chilometri da quella spiaggia ‘marziana’, la grande forgiatura della ‘nuova onda francese’. Di cui ha tutte le ennesime caratteristiche dominanti: quel tocco autoriale che mai si estenua, il cinema come economia di scala (“Pochissimi mezzi, grande espressione”, direbbe Jean Rouch), e quel ricamare scene e diaspore narrative sul filo esile esile di un piccolissimo racconto. O, forse, di una grande poesia.

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