Regia di David Leitch vedi scheda film
Dopo John Wick e Atomica Bionda, film dinamici con molte sequenze di fisico coinvolgimento, grafici e ironici nella loro spudoratezza antinaturalistica o iperrealistica, il regista David Leitch, ex-stuntman, si dedica alle evoluzioni totalmente digitali di Deadpool con lo spirito divertito di un Tex Avery impudico. Il film è, infatti, un cartone animato live, con un protagonista che non può morire neanche volendo, nemmeno se maciullato, e che non si prende mai sul serio o, quando lo fa, se ne dimentica presto.
Comprimendo in una pellicola tutti i film sui supereroi più o meno recenti, dagli X-Men, di cui Deadpool , mutante indotto, è emanazione deviante, Logan di cui è uno spin-off demenziale (i due personaggi con i rispettivi attori si erano incontrati nel primo Wolverine) sino a citare il grottesco Lanterna Verde (DC Comics) interpretato da Reynolds e prendendoli tutti in giro, questo secondo capitolo delle disavventure di Wade Wilson assassina senza pensieri non solo una grande varietà di persone ma anche tutte le mitologie faticosamente costruite e i canoni esistenti con un vago sentore di vendetta liberatoria (ed la rappresaglia compensativa è proprio parte della motivazione del personaggio e della trama) sin dalla scena iniziale (che cita quella del secondo Guardiani della Galassia, con scoppi e combattimenti fuori fuoco in secondo piano). Deadpool riporta alla piatta bidimensionalità la stereoscopia, fotografica e narrativa, delle saghe supereroistiche attuali (sia cartacee che cinematografiche), prendendosene beffa. Così il film si prende gioco del team-up dei Vendicatori (e affine Justice League)facendo fuori la squadra di X-Force (già sgangherata di suo) nei modi più assurdi, mentre il nemico Cable, interpretato da Josh Brolin, già Thanos nell’ultimo Avengers (come il film confessa) ma privo di “outfit” digitale totale e di onnipotenza acquisita, passa da avversario a complice in un attimo, senza ripensamenti. Ma i pensieri non sono il forte dei personaggi del film, spinti dall’azione e dalla demenza che diventa demenzialità totale di un gioco al massacro di tutte le convenzioni. Easter egg anabolizzato a film, Deadpool tutto cita e deride, recupera e deturpa, nomina e sfotte in un cartone per adulti sboccato e sbroccato, un puro divertissement compresso nel formato cinematografico di un paio d’ore.
Emulo di Will Coyote in calzamaglia, Deadpool non muore nemmeno se fatto a pezzi perché si rigenera, come la pellicola stessa che si alimenta per superfetazioni successive e innesti apocrifi, masticando The Gifted e X-men cinematografici, appropriandosi del Futuro passato per viaggaire nel tempo, ammazza di nuovo James Hewlett (altro immortale con fattore rigenerante, fatto fuori per stanchezza di Jackman) e lo rimpiange, gioca su melodrammatici psicologismi simbolici (l’annegamento come immagine del trapasso e la barriera invisibile tra vivi e morti) e esasperazioni linguistiche in un pot pourri zeppo di tutto, come un brainstorming di nerd patiti di fumetti sotto anfetamine. La storia stessa, grazie all’espediente del viaggio nel tempo (ripreso da Origins), si può facilmente annullare, decretando l’inutilità completa di qualsivoglia trama o di spinta motivazionale del personaggio, stracciando qualsiasi elemento o appiglio narrativo e rendendo tutto voluttuosamente pretestuoso.
Il film, che si dissipa nell’amalgama di riferimenti, topoi e citazioni, può piacere o stancare, o tutti e due a seconda della predisposizione all’indigestione di un cartoon a cartoni in cui niente ha senso se non la logica della pazzia di una nave dei folli in avaria nel mare della cinematografia supereroistica, con il grottesco funebre di Bosch sostituito dal divertimento scavezzacollo e spensierato di Reynolds in cui tutto è come sembra ma mai come dovrebbe. Non è un film Disney, anche se Fox è stata recentemente inglobata dalla major del topo, ma una versione moderna di una pellicola di Zucker-Zucker-Abrahams (L’aereo più pazzo del mondo o Top Secret!, per citare i migliori), un universo autoalimentato di gag forsennate su trama ancillare, tra la parodia goliardica e l’omaggio serio di un fan sbarellato.
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