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Ecstasy

Regia di Luca Ronchi vedi scheda film

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La recensione su Ecstasy

di giurista81
4 stelle

 

Colossale occasione mancata (soprattutto e non solo) per l'inettitudine del regista e degli sceneggiatori che prendono un inconsueto spunto da un racconto celebrato dal grande maestro del weird e dell'horror Howard P. Lovecraft senza poi seguirne i contenuti. Si scomoda infatti il capolavoro horror La Storia della Polvere Bianca, uno dei migliori racconti inclusi nel romanzo circolare I Tre Impostori del gallese Arthur Machen, e lo si fa al servizio di una trama che chiama in gioco i volti più noti dell'hardcore italiano degli anni ottanta. La sciatteria esecutiva, tuttavia, non tarda a mostrarsi e non solo per le brutte scenografie e la non curata fotografia. Viene infatti riportato per due volte (qualora si fosse stati distratti), nei credit di apertura e in quelli di chiusura, l'errato riferimento all'anno di uscita del racconto indicato nel 1984 anziché il corretto 1895. Moana Pozzi sembra quasi voler giocare un ruolo alla Oscar Wilde (grande estimatore di Arthur Machen, dopo aver letto un racconto su un predatore sessuale che sfruttava la sua somiglianza per sostituirsi al marito di una donna e andare a letto con la medesima), diremo dopo il perché, ed è lei a costruire e volere il film dopo essere stata avviata alla lettura di Machen da un attore teatrale di mia conoscenza (così mi rivelò lui anni fa in una lunga chiamata telefonica). Purtroppo, probabilmente, sceglie le persone sbagliate per sviluppare il non semplice soggetto. Ronchi (cosceneggiatore in supporto di Moana) spara indizi a casaccio in qua e in là, sostituendo la “polvere bianca” con la “polvere nera”, un composto magico proveniente dall'Africa che dovrebbe fungere da stimolante ammazza timidezza. Moana se lo fa consegnare da un'astrologa spacciatrice di droghe (!?) per aiutare sua sorella a vincere la chiusura mentale e a esorcizzare gli impulsi di morte che l'accompagnano (!?). La giovane diviene subito assuefatta dal misterioso composto con Moana, la stessa che glielo ha somministrato, che le dice di fare attenzione perché non si sa cosa sia (!?). Fatto sta che la sorella diviene un'allupata che va in giro in cerca di amanti che però la respingono per la sua violenza (scena dell'approccio in discoteca girata da cani); inoltre comincia a presentarsi sulla sua mano una macchia nera che cresce giorno dopo giorno. Se nel racconto d Machen la cosa viene sviluppata e approfondita portando a un'involuzione della natura umana verso una creatura legata all'antichità, con riferimenti alla stregoneria e ai culti segreti, qua lo sviluppo della traccia viene improvvisamente troncato sul finale. Ronchi si limita a mostrare, col filtro della televisione visionata da Moana, un documentario in cui si parla di vinum sabbati e di sabba senza null'altro dire e quasi a voler creare un parallelismo tra la polvere bianca di Machen e la dipendenza dal sesso e dal piacere estremo (da qui il parallelismo tra “ecstasy” quale droga e estasi quale orgasmo).

Se quanto appena detto è un vizio individuabile solo dai fan della narrativa del terrore, il resto non tarda a palesarsi anche agli occhi di tutti gli spettatori.

Ronchi, probabilmente a differenza di Moana (non fate battute), non ha le idee chiare su quali “pesci” prendere e non coglie l'attimo. Propone uno script fantastico che sviluppa in modo sconclusionato (cosa succede alla fine alla sorella della Pozzi?) e incoerente (Moana vorrebbe aiutare la sorella a vincere un atteggiamento di chiusura psicologica e lo fa avviandola al mondo delle droghe, per poi subire la questione dicendo tuttavia di volerla risolvere!?), adotta uno stile registico documentaristico sulla vita di Moana Pozzi (che interpreta sé stessa), sui suoi impulsi sessuali e sul mondo dell'hard (vero motivo del film, miscelato a una storia fantastica scritta con i piedi), monta a ripetizione scene di Moana che vagabondeggia in solitudine a bordo della sua Mercedes nera nel centro di Roma, con le medesime riprese utilizzate più volte nel corso del film per allungarne la durata (altrimenti inferiore ai limiti del lungometraggio). Fallimentare anche la scelta del cast artistico, praticamente traslato dal cast di un porno. Troviamo infatti, tra gli altri, Rocco Siffredi e Barbarella. È forse per questo che Ronchi decide di tagliare quasi del tutto i dialoghi (trucco per rendere meno complesse le recitazioni) e di procedere con la voce narrante di Moana che, in apparenza, dice idiozie e banalità filosofiche a nastro, tutte tese ad esaltare la materia e l'edonismo, peraltro anche con termini volgari (immaginerete da soli quali siano). Attenzione però a non cadere in fallo (o sul fallo), poiché a una visione più attenta spicca una sovrapposizione tra Moana e la sorella, essendo anche la prima una donna costretta alla peggiore delle solitudini che si possa vivere, schiava di un piacere che le ha impedito di sviluppare profondi rapporti umani. Non a caso, nel film, Moana non ride mai, sembra triste, svogliata, persino assente, proiettata su un altro mondo. La sua appare un'interpretazione tremenda, mono espressiva, eppure ciò è probabilmente voluto (non si dimentichi che questo film è frutto di una volontà della stessa Moana che quindi sarebbe dovuta essere elettrizzata dall'occasione) e potrebbe rispondere all'esigenza di mettere a nudo, oltre al corpo, l'anima ferita e non completata dall'affermazione spirituale dell'attrice. Moana è triste sebbene professi per tutto il corso del film la sua volontà di portare felicità a coloro che la conoscono. Gli uomini di cui si circonda, però, non se ne accorgono, pretendono solo di esser sollevati (smettete di ridere con quelle battute e fate le persone serie) e non apportano niente di costruttivo ed evolutivo per la crescita della persona.

Visto in questa ottica, a mio avviso la più fedele alle ragioni che ne stanno alla base, Ecstasy è un film tragico, assai superiore alla media dei prodotti del genere erotico. Sembra che Moana condanni la sua stessa vita, come se volesse sottolineare la mancanza di sostanza e di appagamento spirituale. Appare svogliata, spenta a livello cerebrale e tutta orientata al materialismo, come se questa fosse una spinta ribelle e deviante per dissociarsi da una realtà non appagante. A Rocco dice che le piacciono i suoi muscoli e se lo porta a letto la sera, quando non adesca qualcun altro, poiché ogni sera uomo diverso delizia le sue pulsioni (afferma di avere avuto 400 uomini). Del resto i soggetti con cui lavora non spiccano certo per intraprendenza mentale o almeno così vengono presentati. Palestrati, cultori del corpo e di quanto sia esteriorità (la stessa Moana dice di essere una cultrice dell'esteriorità, ma poi non ne da dimostrazione effettiva), ricercatori di piaceri immediati. Un tipo si atteggia a mostrare la sua potenza virile, chiudendo le braccia per gonfiarne le linee davanti alle donne e quando gli chiedono che fine abbia fatto una sua collega (morta suicida) se ne rammarica e dice che era carina, confessando però di non ricordarne il nome (si noti la profondità nella conoscenza di una persona). Barbarella tiene condotte superficiali e confonde la figura di un astrologo con quella di un astronomo. Un'altra donna è invidiosa di Moana, perché lei si porta a letto chi vuole, mentre a lei non riesce. La stessa Moana cerca di aiutare la sorella (una quasi affetta da hikikomori) a liberarsi dalle sabbie mobili della morte che le gravita attorno, ma ottiene il risultato opposto. La giovane infatti è interessata all'orrore, alle manifestazioni del maligno e alla morte, rifiutando di uscire e conoscere nuove persone. Quando Moana interviene in suo soccorso dimostra di essere incapace di agire a livello mentale sulle persone e di conoscere una sola via: quella del sesso (scopo unico contrapposto alla moltitudine). Le propone infatti l'assunzione di una droga che ne distrugge definitivamente il cervello, assimilandola a una bestia. Forse in questi passaggi si cela l'obiettivo del regista o, meglio ancora, di Moana Pozzi ovvero la volontà, alla maniera di Oscar Wilde (perdonatemi il proibitivo metro di raffronto), di realizzare una condanna dell'edonismo presentando il prodotto, alla maniera de Il Ritratto di Oscar Wilde, quale apparente apologia del sesso e dei piaceri della carne. Proposito questo eccellente e coraggioso per Moana (difficile pensare che tra gli spettatori del film vi fossero molti filosofi e letterati, con la conseguenza di frustrare il messaggio finale al punto da renderlo incomprensibile se non frainteso), ma reso in modo scellerato per l'assenza di produttori di un certo peso e per le incertezze mostrate da un regista incapace di sviluppare la questione.

Solo una cosa appare chiara a tutti: inquadrare con insistenza gli organi sessuali delle attrici (come se quelli fossero i punti di forza di una donna), con Moana (il cui fisico non si scopre certo qua, ma solo nel senso di apprendimento del fatto) costantemente nuda o con vestiti trasparenti. Eppure, nonostante questo, il film non è erotico. Ronchi non ricerca infatti l'erotismo, mostra corpi attraenti, certo, ma non con il fine di eccitare lo spettatore (che invece, dato il pubblico di riferimento, starà con la lingua di fuori alla Fantozzi). Cosa resta allora alla fine? Una grandissima confusione che non porta da nessuna parte, con scene di raccordo montate con l'intento di dare una consistenza a una trama che si sgretola strada facendo come se Ronchi avesse girato due cortometraggi (entrambi senza capo né coda) e li avesse poi cuciti insieme. Eppure... eppure.. se grattate un po' sotto e continuate a grattare... qualcosa di buono si riesce a provare col rammarico di aver perso una grande occasione, seppur senza chiamare in causa Orazio e il suo famoso carpe diem.

 

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