Regia di John Ford vedi scheda film
Cercando di definire la crisi di un mondo effimero, come gli riuscì con “Sentieri Selvaggi” quattro anni prima, John Ford ci riesce in parte e soprattutto nel momento più drammatico del film: l’agnizione e l’impiccaggione di Lupo Veloce, il giovane Comanche di origine bianca riportato al forte come da programma. Per il resto il film non sembra intenzionato a volare alto, a staccarsi pienamente da terra e godere del grande respiro epico e umano che è solito del regista (vedi anche l’assenza di paesaggi naturali degni della grandezza dei suoi eroi). Sia chiaro, rimane un John Ford, con alcuni suoi marchi di fabbrica ben visibili, dal caratterista Andy Devine all’eroe che se ne va spinto dall’avventura, passando anche dalla chiara impostazione classica di molte scene e inquadrature. Ciò che chiaramente appare più evidente è l’ultizzo di James Stewart come partner di Richard Widmark. Stewart arriva a sostituire il John Wayne granitico e fondatore dei valori americani con i suoi personaggi amletici, che fanno del dubbio una vera condizione esistenziale. E il suo sceriffo McCabe è l’espressione riuscita di un’ambiguità umana non negativa, ma legittima e contestuale. O meglio legittima perché contestuale, anche se l’impietoso sguardo di Ford sull’atteggiamento razzista che cova nelle pulsioni degli americani perbene è comunque uno sguardo anacronistico per l’epopea western. Ma a questo serve il cinema, e il western su tutti gli altri generi, a creare quell’atemporalità grazie alla quale il deserto o il villaggio sperduto diventano il teatro di tutte le umane passioni, per dirla alla Anthony Mann. E la cifra attoria di Stewart, unita a quella di Widmark, ed entrambe mutuate dalla classe di John Ford non potevano che stagliarsi all’interno di una pellicola in debito di fascino. Ci rimangono comunque le belle battute tra i due pards, di cui indicativo è il lungo dialogo a camera fissa in riva al fiume, e i momenti plastici che sembrano appiccicati lì per lì giusto come fronzoli (la morte dell’Orso di Pietra di Woody Strode come l’impiccagione di Lupo Veloce), ma che in realtà sono le stilettate, narrativa la prima e poetica la seconda, di un grande regista.
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