Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Il bidonista Augusto, alla soglia dei cinquant'anni, si rende conto d'essere un fallito: non ha fatto i soldi come il collega Rinaldo, non ha una famiglia come il candido Picasso, non ha nemmeno una faccia di bronzo che gli permetta di galleggiare nel sottobosco delle truffe come il viscido Roberto. Ha solo l'affetto della giovane figlia, della quale, però, perde la stima. L'unica nota positiva nel desolante ritratto che Fellini fa di Augusto è la scoperta che, in fondo in fondo, un cuore ce l'ha. Anche se il tragico finale, bello come quello di "Accattone" (1961), è preannunciato da una notazione ambigua: non sapremo mai - il regista si guarda bene dal dircelo - se veramente Augusto, toccato nel profondo dalla figura sofferente della giovane ragazza paralitica, aveva l'intenzione di restituire i soldi ai contadini o se invece voleva tenerseli per offrirli alla figlia. "Il bidone" è un apologo tragicomico (dove il prefisso domina sul suffisso) che nasce da una costola del neorealismo, per assumere connotazioni quasi gogoliane. Meno considerato della "Strada" (1954), "Il bidone" trae i suoi spunti di poesia da elementi più quotidiani, senza tralasciare, però, situazioni in cui il patetico sgorga dallo squallore più assoluto (come quella del furto del portasigarette). Ottimi i tre protagonisti, Crawford (allora quarantaquattrenne, ma che dimostrava ben più dei quarantotto anni del personaggio), Basehart e Fabrizi, ma il film vanta un buon cast secondario, quasi come un film americano.
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