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Il mascalzone

Regia di Michael Tuchner vedi scheda film

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L'autore

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La recensione su Il mascalzone

di (spopola) 1726792
4 stelle

Il mascalzone (in originale Villain) è l’opera d’esordio per il grande schermo, dopo un apprendistato sviluppatosi soprattutto  in campo televisivo, del regista inglese Michael Tuchner, sul quale si puntarono anche da noi per un breve attimo, i riflettori interessati della critica, che coltivarono l’illusoria speranza, ben presto tramontata, di poter ravvisare in lui la nascita, se non di un autore vero e proprio,  di una interessante promessa (in ogni caso non mantenuta, visto che di lui poi si sono definitivamente perse le tracce, visto che si è smarrito definitivamente in produzioni di scarso costrutto e di ancor minore impatto) che quanto meno fosse in grado di rinfrescare il genere del gangster movie, con nuova linfa e differenti prospettive.
In effetti questa pellicola (tratta dal romanzo di James Harlow The Burden of Proaf e sceneggiata da Dick Clement e Jan La Frenais), ha elementi all’apparenza abbastanza insoliti per l’epoca da suscitare una certa curiosità proprio per la struttura inusuale del racconto che, più che inserirsi nell’usurato filone dei film che miravano a rievocare, soprattutto in chiave “nostalgica”, le gesta dei famigerati gangster degli anni ’30, cresciuti come funghi in quegli anni proprio sulla scia del grande successo arriso a Bonnie and Clayde, sembrava  voler riprendere invece più o meno dichiaratamente, lo schema e il modello dei classici del genere, ma con l’obbiettivo – almeno in apparenza -  di apportarci poi vistose variazioni.
E’ proprio allora questo tentativo di raccontare una storia intrisa degli umori dell’attualità, servendosi, sia pure con tutte le varianti che vedremo, dei moduli di un genere così datato, che conferì quel fugace interesse a cui accennavo sopra a un film altrimenti assai modesto, e tale da non riuscire a suscitare  davvero né “fermenti” né “palpiti”, soprattutto se rivisto “col senno di poi”. Quelle inusuali novità che qualcuno ci aveva voluto leggere, si riducono infatti semplicemente a qualche annotazione di costume non del tutto conforme (piccolissime “trasgressioni” narrative che adesso  però possono persino far sorridere un po’).
Ma andiamo per gradi e per priorità.  Quello che salta ancora oggi agli occhi quale elemento primario di quella“variazione inedita” riscontrata, è il rilevare come una volta tanto,  c’è in questo caso una esplicita connotazione di omosessualità che definisce proprio il personaggio principale e i suoi rapporti (una volontà di ”chiarezza” che è portata avanti con insolito vigore anche in altre direzioni, mettendo il luce nature meno “incerte” di particolari e morbose ”ossessioni”  sessuali che coinvolgono la sfera degli affetti, anche se l’intento è soprattutto “discreditativo” come era d’uso allora quando si parlava di “divergenze” comportamentali non “allineate”). Di conseguenza (tanto per fare un esempio concreto) se in uno dei capostipiti riconosciuti della corrente l’atteggiamento di Piccolo Cesare nei riguardi dell’amico Joe risultava  ambiguamente indefinito, rimaneva volutamente nel vago la natura esplicita del rapporto, qui l’omosessualità di Vic Dakin, il protagonista,  è immediatamente – e apertamente – dichiarata e le sue preferenze di “letto”, il suo “amare” gli uomini, evidenziato a chiare lettere. Analogamente, chiamando in ballo un altro capolavoro del settore, se l’affetto alquanto dubbio che Scarface mostrava verso la sorella poteva lasciare ampi margini di incertezza interpretativa, nell’attaccamento di Vic  verso la madre si ravvisa invece in maniera lampante l’esistenza  (e la natura) di un “legame” patologico.
Non si fanno sconti nemmeno riguardo a quello che potremmo definire il “sadismo”  implicito sempre sente nel filone, ma non si rilevano  invece variazioni di particolare consistenza sul versante dei rapporti “corruttivi” (la  potenza e la capacità prevaricativa degli antichi gangster anche rispetto a una parte consistente delle istituzioni, sono sottolineature e continuamente ribadite per tutto il corso del film con espliciti riferimenti alla corruzione frbordante e alla complicità delle “alte sfere”).
Una simile “esposizione” esasperata ma un po’ troppo confusa, crea a sua volta in inevitabile disorientamento “percettivo”: se da una parte si intuisce l’intenzione di voler utilizzare questo modo un po’ straniante di rimanere più esterni e obbiettivi rispetto alle cose e ai fatti  per  demistificare un poco la miticizzazione esasperata di quei neri “eroi” facendoceli percepire per quello che in effetti erano, finalmente svuotati da ogni aura di epicizzazione, dall’altra ci si allinea invece un po’ troppo, magari involontariamente, al filone celebrativo delle qualità morali delle forze dell’ordine non corrotte né corruttibili così da rendere difficile l’individuazione dell’effettivo posizionamento dell’asse portante (e soprattutto dell’ottica della visione) e di comprendere davvero in che direzione voleva operare l’autore.
Lewis  Jacobs,  riferendosi a Piccolo Cesare, sottolineò a suo tempo i che in quel film (e in altri consimili) i capibanda furono esaltati e i loro metodi scusati determinando  l’ammirazione per il forte (anche se malvagio) (…) e provocando di conseguenza il disprezzo per il più debole. Non si può dire certamente che questo accada  anche nel il film di Tuchner, poiché  (come già detto), Vic  Dakin ha da subito caratteristiche negative, e ci viene rappresentato come un lestofante abietto e meschino come ogni effettivo mascalzone che si rispetti, anche se venato da velleitari atteggiamenti anticonformisti, persino un po’ ridicoli a volte (si pensi per esempio al finale, dove il gangster non muore, quasi martirizzato, seguendo  la sua inevitabile e tragica sorte sull’onda del destino, come accadeva ai suoi collegi degli anni ruggenti ma viene invece più banalmente arrestato, ammanettato e “condotto ai ceppi” dai poliziotti che lo hanno finalmente preso,  e, nella sconfitta definitiva, non può fare altro che gridare incollerito alla gente che curiosa osserva la sua “fine dalle finestre: Che avete da guardare voi lassù? Che c’è di così interessante da vedere?). Va ancora peggio però quando esprime giudizi colmi di disprezzo e di non tanto sottesa superiorità, verso la classe benpensante  della sua terra (Stupidi borghesi che si nutrono di TV i giorni feriali e si sbronzano ogni domenica senza altro obiettivo e scopo) o persino verso le mogli dei suoi  complici deridendo sarcasticamente le piccole ambizioni di ogni giorno (tua moglie sarà contenta: finalmente avrà quel frigorifero che sogna e insegue da una vita), ma enuncia invece soltanto consunte banalità che potevano benissimo esserci risparmiate.
Tutto dunque (qualunque fosse l’bbiettivo)  rimane nella sfera incerta delle intenzioni proprio a causa del tono  più scialbo che duro della regia che non riesce ad esplicitarsi pienamente nella definizione di una forma compiuta, e sopratutto della recitazione che, nonostante gli importanti nomi utilizzati, primo fra tutti Richard Burton per il ruolo eponimo, non è mai eccelsa. Ogni cosa si riduce quindi a una visione riduttiva, manichea e un po’ cialtronesca, incapace di smantellare fino in fondo il fascinoso appeal della malavita, che si “accontenta” semmai di parteggiare più apertamente, al fine di ristabilire un poco gli equilibri,  nella direzione delle umili e solerti (quelle non corrotte ovviamente) forze dell’ordine.
Così alla fine si ha l’impressione  che il vero eroe sia per Tuchner, non già il mefitico  Vic Dakin su cui dovrebbe essere incentrata l’opera, ma l’ispettore Matthew che gli si contrappone, le cui doti (come già accadeva per esempio, ma con altre modalità e risultati in 24 ore a Scotland Yard di John Ford) sono il conformismo di un pacato ma tenace  attaccamento al dovere, il mai sopito spirito di sacrificio, oltre che il culto della famiglia e dei riti ad essa connessi. Quindi in definitiva forse, nonostante il velleitarismo dichiarato dei propositi (ammesso e non concesso che ci fosse davvero, cosa della quale è lecito dubitare),  il risultato conclusivo dell’operazione, rimane ancorato (e vincolato) persino con minore magniloquenza  e empatia del solito, all’interno della  consueta mitologia “deviatoria”del potere,  e non dà corpo al alcuna effettiva enunciazione programmatica di  demistificazione che rimane genericamente concentrata quasi esclusivamente nella definizione psicologica dei personaggi più che nei loro atti. Allora quell’ipotetica  rivoluzione rimane solo (e sono magnanimo) embrionalmente accennata,  totalmente soffocata dentro un impianto un po’ ingessato  che per troppo imbarazzo (e  anche per eccessiva titubanza), non ha le cartucce e le polveri sufficienti per far “esplodere” (e nemmeno implodere però)  per poi rimodellare  il tutto con una ritrovata, vigorosa forza innovativa, quella che mi viene da definire come “la retorica consunta del genere”. Si rimane così pateticamente nell’ovvio, come era prevedibilmente pronosticabile.
 

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