Regia di Seth Holt vedi scheda film
Paul Gregory, truffatore canadese operativo a Londra, fingendosi un aspirante drammaturgo, raggira la ricca, eccentrica ed ingenua signora Harriet P. Jefferson (la interpreta la deliziosa Bessie Love, grande attrice del muto, già nominata all’Oscar come non protagonista per “La canzone di Broadway”). Dopo aver facilmente conquistato la sua fiducia, vende infatti la preziosa collezione di rarissime monete del caro marito defunto della donna, incassa 55 mila sterline e nasconde il tutto in una cassetta di sicurezza. Gregory si fa poi arrestare deliberatamente (un piccolo prezzo da pagare, a suo modo di vedere) ma contrariamente alle sue aspettative (trascorrere un breve periodo in prigione per poi godersi tranquillamente il bottino) viene condannato a 10 anni. Evaso (“I 10 anni più brevi che tu abbia vissuto.”), con l’aiuto del suo complice Victor Sloane, prova a recuperare i soldi. Sloane (un ambiguo e infido Bernard Lee, all’apparenza tranquillo e fedele eppure pericoloso e sinistro) però non rispetta gli accordi. Per Paul inizia una lunga fuga, ma nessuno dei suoi vecchi amici nel mondo della criminalità è disposto a dargli una mano. Troverà l’appoggio inaspettato della giovane Bridget, appena rientrata da Parigi ed abbandonata dal fidanzato, conosciuta per caso: “Non deve cercare la mia solidarietà: ce l’ha già!”
Il debutto alla regia di Seth Holt, che aveva esordito nel documentario come assistente al montaggio (almeno altri due titoli da recuperare nella sua filmografia, “La casa del terrore” e “Nanny la governante” con una diabolica Bette Davis - Martin Scorsese, nel suo personale elenco dei 50 film britannici da vedere suggerito ad Edgar Wright, ha inserito, oltre a questi tre titoli, anche il per me inedito “Avamposto Sahara”, quindi ben 4 opere sulle 6 realizzate complessivamente da Holt), tratto da un romanzo di Donald MacKenzie (ex detenuto) e sceneggiato dal regista con il critico Kenneth Tynan (quest’ultimo poi avrebbe collaborato anche allo script dell’eccellente “Macbeth” di Polanski), oltre a rappresentare il primo ruolo cinematografico della grande Maggie Smith (già sublime) è un cupo noir di sorprendente modernità. Percorso da un profondo e soffocante senso di ineluttabile fatalità e di malinconica solitudine che nella parte finale si trasforma in assillante paranoia venata però di delicato melò nella quasi struggente figura romantica di Bridget (“Perché sei certo che non ti deluderò?” chiede a Paul durante la fuga – “Non preoccuparti non ti deluderò!” tenta invano di rassicurarlo quando lo lascia alla baita), fotografato in un magnetico e funereo bianco e nero da Paul Beeson, capace di creare un’atmosfera di oscura minaccia e di costante pericolo, puntellato dalle strepitose note jazz di Dizzy Reece, costruito in modo assai originale (si mostra prima l’evasione dal carcere del protagonista, poi il motivo per cui è finito dietro le sbarre), giocato su particolari solo all’apparenza insignificanti (un piccolo taglio al pollice, uno stivale per zoppicare, perché “nessuno guarda uno storpio negli occhi”, un mucchietto di sabbia per gatti, un sacchetto di chiavi, un micetto che entra dalla finestra all’alba, il saluto confidenziale “ciao”) ma anche curiosi e stravaganti (una cornacchia che cammina su una palla) è stato definito dal suo stesso autore “il film Ealing meno Ealing mai realizzato” (distribuisce comunque la MGM). Con l’asciuttezza e la disillusione che hanno fatto grande il genere ed alcuni momenti di strepitosa tensione: tutta la magistrale sequenza iniziale dell’evasione, praticamente muta, il flashback che racconta la meticolosa ed intelligente truffa messa in atto dal protagonista, il viaggio tra le isolate campagne del Galles insieme alla dolce ed annoiata Bridget, il finale. Impressionante la prova del protagonista George Nader, truffatore scaltro ed opportunista, accorto pianificatore, abile a muoversi con disinvolta ed elegante spregiudicatezza (non a caso definito dal suo complice una “maschera di ghiaccio”), che d’improvviso si ritrova con l’acqua alla gola, precipitato in un incubo senza fine, abbandonato dai vecchi amici, braccato in una città che nasconde ripetute trappole, letteralmente senza nessun posto dove andare (nella vita Nader è stato grande amico di Rock Hudson e la sua vicenda personale meriterebbe un capitolo a parte). Poco amato all’epoca sia dal pubblico sia dalla critica, merita una doverosa riscoperta.
Voto: 7 e mezzo
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