Regia di Vittorio De Seta vedi scheda film
Uno sguardo profondo sulla Calabria, tra tradizione e modernità.
È una carrellata molto eterogenea su ambienti e scenari della Calabria, da quelli molto tradizionali (come la casera tra i monti, il pecorino fatto secondo tradizione) a quelli moderni, come le città o il laboratorio grafico dell'università. Lo sguardo è distaccato e riflessivo, non ci sono interviste, ma solo una voce narrante, quasi straniante, che vuole far riflettere lo spettatore sopratutto sulle profonde trasformazioni in atto. La Calabria rurale e contadina di un tempo sta diventando società metropolitana e industriale. Un'idea che continuamente traspare, ed a volte è esplicitata dalla voce narrante è che questo passaggio ha portato una perdita a tutto il tessuto sociale, con la crescita dell'individualismo e la rottura della coesione e solidarietà sociali di un tempo. Più che il progresso in sé, responsabile di questo deterioramento sembra l'abbandono dei piccoli centri, e quindi delle tradizioni, per la fuga nella città, che spesso è una massa indistinta di individui soli, accomunati dalla rincorsa del successo e del profitto. Il regista si interroga allo stesso modo su quell'inquietudine e ricerca confusa di realizzazione personale che portarono molti a lasciare il villaggio natio per la città o per emigrare oltreoceano. In molti casi la molla fu la povertà, ma in altri semplicemente la noia e la voglia di qualcosa di nuovo. Le immagini sono belle e spesso poetiche, e le musiche religiose tradizionali che si sentono in sottofondo conferiscono ad esse un afflato poetico e quasi mistico. Spesso si tratta di canti di origine albanese, cioè di quelle comunità albanesi che sono rimaste tra i monti calabri dai tempi dei tempi. È più di un documentario; è una riflessione sui massimi sistemi, sul perché delle cose, e sull'essenza dei luoghi e delle tradizioni di una terra. Su tutto, il rimpianto per un mondo che non c'è quasi più, schiacciato com'è dall'avanzare della modernità.
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