Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film
Hossain Sabzian è un giovane disoccupato che riesce ad introdursi nella casa della famiglia Ahankhah facendosi passare per il regista Moshen Makhmalbaf. Onorata di ospitare il grande regista de “Il ciclista”, la famiglia cede alle lusinghe di avere un ruolo importante nel suo prossimo film. Quando l’inganno verrà scoperto, Sabzian finirà in tribunale con l’accusa di truffa e tentato furto. Ma quali erano le reali intenzione dell’uomo ? E perché si è fatto passare per Moshen Makhmalbaf ?
Close Up - Moshen Makmalbaf e Hossain Sabzian.
“Close Up” di Abbas Kiarostami è un film di peculiare originalità stilistica, una raffinata speculazione metalinguistica fatta per nome e per conto dell’arte cinematografica. Tutti i protagonisti del film recitano loro stessi, inclusi lo stesso Abbas Kiarostami e Moshen Makhmalbaf, come prescrive la poetica dell’autore iraniano e come impone la pretesa di fare “cinema verità”.
Ci sono tre elementi tra loro complementari che contribuiscono a fare la struttura narrativa del film. Innanzitutto, “Close Up” vuole essere una riflessione acuta sulla labile differenza tra la realtà e la finzione prodotta dal cinema. Da un lato, si sa, quando si adotta un’inquadratura piuttosto che un’altra, il regista attua una scelta che già significa introdurre un elemento artificioso nel supposto realismo che s’intende praticare. Dall’altro lato, però, si può affermare che per il cinema, aderire alla realtà, non necessariamente deve significare pretendere di catturarla per intero. Partendo proprio da questo limite insuperabile, l’intento speculativo del cinema dovrebbe essere quello di farsi specchio della realtà rappresentata avendo la pretesa di produrre una visione universale delle cose pur mostrando solo porzioni particolari di mondo. Stando alla poetica di Kiarostami riflettuta in questo film, il cinema, per sua natura, produce passaggi continui tra la realtà presa dalla strada e la finzione filmica, che quindi finiscono per confondersi l’un l’altra nell’intreccio tra un’adesione “documentaristica” alla vita che scorre, catturata per com’è, e l’impronta artistica dell’autore il quale, col suo intervento, imprime una direzione propria alla realtà rappresentata ma senza necessariamente togliergli il crisma della verosimiglianza. E’ un punto di vista soggettivo che tende ad oggettivizzare ciò che si intende rappresentare. In “Close Up”, Abbas Kiarostami riflette su questi argomenti in maniera pregevole : dapprima parte come se volesse fare un resoconto documentaristico sulla singolare vicenda di Sabzian, con lo stesso regista intento a riprendere ogni fase del processo ; poi fa largo uso dei flashback per mostrarci, prima l’incontro di Sabzian con la signora Ahankahah avvenuto in un pullman, poi il momento in cui l’uomo viene prelevato dalla polizia nella casa della famiglia. L’intento realista si mescola con gli artifici cinematografici quindi, e dall’intreccio continuato dei due momenti è davvero difficile definire quale dei due dia più contributi effettivi nel definire la verità sulle sorti esistenziali di Sabzian.
In secondo luogo, “Close Up è un omaggio amorevole alle capacità proprie del cinema di farsi riflessione ragionata sulla realtà che ci circonda. Parafrasando Abbas Kiarostami “il cinema sta alla realtà come la realtà sta al cinema”. Questo è l’assunto centrale della sua poetica (e di gran parte di tutto il cinema iraniano), il suo modo di concepire il cinema come il prolungamento della vita e la vita come un qualcosa che può e deve essere catturato dal cinema. Kiarostami gira “Close Up” con l’intenzione di documentare il processo per truffa ai danni di Hossein Sabzian, nel mentre si evoca il cinema di un altro grande regista iraniano, Moshen Makhmalbaf, che alla fine apparirà interpretando se stesso. Ci sono film dentro altri film quindi, specchi che guardano altri specchi riflettendosi vicendevolmente, uno spazio dove non è affatto detto che le pretese verità non siano fallaci e che la finzione, invece, non produca verità. É chiaramente Sabzian il fulcro di tutta questa riflessione sul cinema. L’uomo si finge un’altra persona, questo è certo, ma la cosa di cui non si può essere sicuri e se lui, dopo aver concluso di recitare la verità di una menzogna, stia fingendo o meno circa le motivazioni che stanno alla base del suo comportamento. É realmente pentito di aver ingannato la famiglia Ahankahah o sta continuando a fingere perché questo è ormai l’unico ruolo che può conferire verità alla sua condizione esistenziale ? Merita il perdono dopo aver mostrato tutta la fragilità del suo cuore ?
Questo dilemma ci porta al terzo tema fondamentale del film, imprescindibile nella filmografia di Abbas Kiarostami, ovvero, l’analisi sulle condizioni sociali del suo paese fatta sempre puntando l’obiettivo su singoli spaccati di vita, senza mai mostrare i nervi scoperti che producono disagio sociale. Ecco il particolare che sa generare l’universale, l’analisi sul mondo circostante che va molto oltre quello che volutamente la macchina da presa pone in primo piano (il Close Up del titolo appunto). Le miserie di un paese lacerato da anni di guerra e da tante contraddizioni sociali emergono tutte dalla narrazione da Sabzian, un uomo posto sull’orlo della povertà, con un divorzio alle spalle, una madre anziana d'accudire ed un figlio da mantenere. Racconta di essersi finto l’amato regista Moshen Makhmalbaf per poter contare su qualche invito a pranzo, di sentirsi gratificato nell'imitare una persona che stima tanto, coltivare per qualche giorno l’illusione di essersi affrancato da una vita di stenti. Sabzian concepisce quindi il cinema come un fondamentale strumento di riscatto sociale, fingersi il regista Makmalbaf ha significato per lui attuare il capovolgimento funzionale tra la finzione praticata nella vita di tutti i giorni per cercare di sopravvivere e il realismo prodotto dal cinema che lui ama. Di Makmalbaf, Sabzian ama particolarmente “Il ciclista”, un film che mostra le condizioni di vita di quelli come lui, che da voce alle speranza di riscatto degli ultimi. Il cinema gli ha dato un grande conforto perché racconta realisticamente le cose così come stanno, senza camuffarle per non inimicarsi il potere costituito. Per Sabzian il realismo praticato dal cinema consiste essenzialmente nel potersi riconoscere nei personaggi e nelle storie raccontate. Per lui il cinema è più vero della società che lo costringe ad essere falso.
Ci sono altri due momenti di originalità filmica che, a mio avviso, vale la pena sottolineare. Il primo è all’inizio del film, quando il giornalista venuto a fare la cronaca dell’accaduto (Hossain Farazmand) si mette a mendicare un registratore a chiunque si trovi nelle vicinanze della casa della famiglia Ahankahah. L’altro è alla fine (e non è un caso), quando il microfono messo addosso a Moshen Makmalbaf funziona ad intermittenza impedendo di sentire ciò che si dicono il regista e Sabzian. Espedienti metacinematografici che, se da un lato imprimono realismo alle immagini perché danno la sensazione voluta di catturare spaccati di vita vissuta senza usare artifici, dall’altro lato stanno li a certificare, attraverso il linguaggio proprio del cinema, la difficoltà estrema di registrare le cose così come sono realmente. Grandissimo cinema.
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