Regia di Elina Psikou vedi scheda film
Pòlemos. Bìa. Peìna. Tànatos.
Che il quinto cavaliere dell’Apocalisse sia, dunque, il Mastro Kitsch? Boh…
Sta di fatto che, dalla visione di questo volenterosovelenoso film della greca Elina Psikou, si esce un po’ frastornati; avessimo fatto di corsa l’intera sala di una musealizzazione che inizia con i ‘bachi da setola’ di Pascali, passando per le manipolazioni in poliuretano espanso flessibile di cui è piena certa arte sixty, per andare a parare – alla fine – davanti ai giochetti/spazzatura di uno come Rudy Van der Velde. Con di comico proprio un cazzo, comunque!
La tripla p(r)igione – incidentale tra le stanze di un appartamento al centro di Atene, così come vorrebbe un passatempo ad incastro – in cui si dibattono i tre personaggi di questa storia (il Signor Nikos , “Nonno Terra” di fascistoide memoria televisiva, un anziano gentiluomo che dopo la morte della moglie, cerca servitù sessuale e soddisfazione filiale per procura; la Signora Sofia, vedova russa partita per l’Ellenia in cerca di sopravvivenza e rimasta invischiata in un ‘matrimonio-trappola’; il Signorino Misha, che sta passando dall’età dell’innocenza all’era della reità, sperdendosi tra tableau vivant favolistici e prostituzione a buon mercato), sostiene una visione davvero ‘nera’ e provocatoria delle ragioni per cui e su cui un’intera nazione sia voluta sprofondare nel baratro. In cui l’hanno accompagnata (dopo decenni di generale ed infamante corruzione) sia la demo’crasia’ conservatrice, sia il socialismo populista che il sinistrismo trasformista dell’ultimo tempo corrente. “Da noi hanno votato Syriza per disperazione. Un popolo disperato non è lucido. La sinistra sparisce, con il centrodestra non c’è quasi più differenza”, sottolinea lo scrittore turco/greco Markaris (parte della sua famiglia venne colpita dal pogrom della Septemvrianá, in Grecia ha validamente collaborato con Theo Anghelopoulos), che nel suo ultimo romanzo fa uccidere da una ‘scuola di killer-pensatori’ l’intera classe accademica greca che abbandona l’insegnamento del sapere (quindi la ‘sofìa’) per passare armi e bagagli a mano al dispiegamento dell’ignoranza (l’ischìs).
Alt! Prima d’arrivare al nodo, c’è comunque un volo da fare. Pindarico.
Nel 1972, mentre i due ‘Giorgioni’ (Zoitakis e Papadopoulos) si davano il cambio sulla sedia degli strategos, l’oplita ateniese Pantelis Voulgaris esordiva nel cinema ‘lungo’ con un ragguardevole film che – di questo parallelismo me ne assumo per intero le responsabilità–, fa copia complementare con quello della quarantenne Psikou.
Al netto di alcuni richiami metacinematografici (nella Psikou c’è il tema feticistico dei giochi olimpici, in Voulgaris un paio di battute sportive ben piazzate; in Voulgaris un componente della famiglia borghese che registra in Doppio 8 – indisponendo anche lo spettatore – i passaggi di un rapporto intimo, nella Psikou i nastri VHS di referti televisivi anni ’70 che paiono riproposti come acefale constatazioni di storia ‘avvenuta’), la correlazione sta nell’affrontare la privazione della libertà personale. In una sorta di ribaltamento sintattico in cui, con esiti artistici meritori, la reclusione dell’anima non è più aggettivazione ma pronome indicativo. Prendiamo in esempio le figure femminili centrali dei due film. Da un lato c’è Anna, giovane cameriera (“accolta in casa più come una figlia che come una serva”, afferma maternamente e falsamente la matrona borghese, verso la fine della schermaglia), che grazie all’occasionale fallimento di un fidanzamento pilotato, si rende concretamente conto del suo stato non solo di lavoratrice, ma anche di donna e di essere umano. Dall’altro c’è Sofia, che mediante l’occasionale compimento di un matrimonio di convenienza, porta ad ebollizione tutte le dinamiche (feroci, annichilenti) che le ruotano intorno. Come straniera, come moglie, come madre.
Qui e lì troviamo, tra le pieghe di luce delle inquadrature, la descrizione di modelli di crescita che si reggono su disastri sociali. Lì e qui scorgiamo, nel buio ordito del montaggio, lo sbozzo di un fantoccio economico grigio e perverso, che porta inesorabile alla dittatura. Dei colonnelli, in Voulgaris, e degli economisti, nella Psikou. Sfioriamo, con il nostro sguardo lieve di spettatori frugali ma anche anthemici, i volti di queste due femmine in gabbia, e ci rendiamo conto – fissandone i silenzi e le urla –, di come DIO, PATRIA, FAMIGLIA e MERCATO siano cardini del Caso tanto quanto mazze ferrate del Caos.
Che il quinto cavaliere dell’Apocalisse sia, dunque, il Mastro Kitsch? Boh…
Cosa dirci alla fine?
Che di certo questo “O gios tis Sofias” va visto; non aspettandosi un capolavoro ma un’onesta installazione d’arte che affascina e respinge, dirimente la questione che oltre all’onda poco anomala di grandi registi come Lanthimos, Tsangari e Avranas, esiste oggi una generazione marginale di ‘bisbiglianti’.
Che, magari, va sorseggiato in simbiosi con “To proxenio tis Annas”, buona occasione per riaprire gli occhi su una stagione del cinema greco che non produsse solo il ‘fainomeno’ Anghelopoulos, ma una miriade di autori eversivi (nel senso pratico e non intellettuale del termine), che fecero cinema non per mostrare la Grecia al mondo ma per lasciare che essa stessa si guardasse allo specchio e dentro di sé.
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