Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Nel 2045 il pianeta si presenta come un conglomerato di aggregati umani che vivono, per gran parte, su case mobili appese fortunosamente a impalcature e transenne che paiono sfidare la gravità ed il senso pratico dello stare in equilibrio.
D’altro canto da anni ormai alla gente non interessa più nulla del mondo in cui vive, del fatto di essere circondati da cose belle e piacevoli alla vista: infatti per queste cose c’è la realtà virtuale, che ha ormai in modo dilagante sostituito ogni percezione diretta del bello e del possibile, trasformando l’impossibile in una realtà, seppur virtuale… appunto.
Oasis è diventato un universo fittizio ma percepibile come vero, in cui ognuno, all’interno del proprio spesso fatiscente e triste domicilio privato, ama rifugiarsi per emozionarsi e stare bene.
Quando il milionario inventore storico di Oasis (Mark Rylance, ormai attore di riferimento del regista, alla sua terza opera girata assieme a stretto giro) muore, lascia la possibilità a chiunque riesca a trovarle, le chiavi per accedere al suo tesoro, quello che lo ha reso l’uomo più conosciuto e ricco del creato.
Il giovane orfano ed un po’ disadattato Wade Watts (lo interpreta il baldo e valido Tye Sheridan), saprà trovare gli appigli corretti per risultare colui che riuscirà a percorrere le tappe corrette per arrivare alla tanto agognata meta.
Nel mezzo del cammino, un mondo fantastico, un sentiero impossibile ove impedimenti razionali come la gravità ed altri ostacoli logistici, verranno a meno, all’interno di un universo popolato di eroi e miti letterari e soprattutto cinematografici, che consentono a Spielberg di frullare uno spettacolone citazionista che non concede intervallo alcuno.
Il gran regista ci conduce infatti in un percorso rutilante all’interno di un universo ove tutto è difficile, ma nulla è realmente impossibile, e dove l’astuzia e l’intelligenza possono avere la meglio sulla sola forza e potenza, fisica o meno che sia.
Da un best seller di Ernest Cline, lo strategico Steven Spielberg, circondato dai fidati ed illustri collaboratori di razza (Kaminski alla fotografia, Silvestri alle musiche per citare i più noti), ci produce il suo nuovo elaborato e fantasmagorico “film leggero” che caratterizza il suo consueto, abituale anno produttivo, composto, ogni due o tre esercizi, da una doppia produzione: quella “seria” (è toccato solo pochi giorni fa a The post) e da una “leggera” dedicata alle masse indistinte, come il film che qui ci occupa.
Il risultato risente delle condizioni tipiche che si godono dopo una visita al luna park: esaltazione iniziale, quando sembra tutto bello e tutto stupefacente: ma "il bel gioco dura poco", e l'atmosfera di esaltazione totale lascia prima o poi il posto, man mano che ci si addentra nei sentieri tortuosi e articolati della “montagna russa”, ad un senso di assuefazione che ci induce a svanire ogni più contagioso senso di stupore e meraviglia. Non bastano King Kong, L'Uomo di ferro, Indy e chissà chi altri, a distoglierci da questa sensazione generale di indigestione.
Un sovraffollamento di dinamiche d'azione, di immagini e situazioni tale da generare un senso pur sottile di fastidio, in genere con Spielberg non si verifica mai; ma ora, trasportati dal vortice ciclonico e pigliatutto di questo Ready Player One, i sintomi ci sono eccome, si avvertono, io li ho provati, e l’indigestione da frullato rutilante e sin troppo frenetico, l'ho accusata stavolta in modo troppo inequivocabile per trascurarla e non tenerne conto.
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