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Ready Player One

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ready Player One

di yume
8 stelle

Un grande spettacolo creato da una mano raffinata, capace di convincere al genere anche gli spettatori più incalliti nel suo rifiuto.

locandina

Ready Player One (2018): locandina

Un consiglio, o meglio, un test: date da zero a dieci il vostro amore per la fantascienza, i video games, gli effetti speciali, il cyberspazio, gli eroi super galattici, i film che superano le due ore.

Se il voto è zero andate di corsa a vedere Ready player one di Steven Spielberg, la vita vi darà ancora una volta prova della sua magica imprevedibilità e, soprattutto, vi dimostrerà, nel caso ce ne fosse stato bisogno, che la mano di un artista può trasformare un inerte blocco di marmo nelì’ Apollo del Belvedere o sette semplici note in una splendida sinfonia.

 

La realtà è la cosa più bella perché … (pausa) …perché è reale

 

Breve massima, solo in apparenza sempliciotta, in cui si raccoglie il senso del lungo film.

Spielberg coglie da par suo il senso del suo tempo, lo trasforma in un film sontuoso nel suo genere, leggero come i corpi che fluttuano danzando nell’aria (e le astronavi di Kubrik che danzano valzer di Strauss?) immaginifico, vorticoso, travolgente, che non dà un attimo di tregua e non stanca, fa sorridere, spesso, fa stare in tensione, altrettanto spesso, e fa credere nel finale, perché di sogni c’è sempre un gran bisogno.

Mark Rylance

Ready Player One (2018): Mark Rylance

 

Sinossi, il più possibile breve

 

Innanzitutto il romanzo di Ernest Cline, collaboratore alla sceneggiatura, da cui nasce il film.

Quindi l’omaggio ai magnifici anni Ottanta, al mondo dei videogiochi che allora ebbe uno slancio vertiginoso e segnò il gusto delle generazioni future.

 

Siamo nel 2045 a Columbus, in Ohio.

James Halliday (Mark Rylance) è uno scienziato dalla bianca chioma scapigliatacom’è giusto che sia uno scienziato (pensiamo a Einstein).

Titubante nel muoversi e nel parlare, sembra un bambino invecchiato e vive in un laboratorio/casa anni cinquanta con un socio da cui si separerà ma resteranno amici.

Halliday (uno tra Steve Job e Willy Wonka) ha inventato Oasis, un mondo virtuale di tale successo sul pubblico da fargli accumulare un patrimonio immenso di cui, vedremo, si servirà solo per organizzare una grande caccia al tesoro: chi troverà le cinque chiavi nascoste diventerà il padrone di Oasis dopo la sua morte.

Naturalmente le sue volontà post mortem ce le dirà lui stesso alzandosi un momentino dalla bara in cui giace.

Su Oasis si può vivere una second life a tutti gli effetti, cambiar forma, identità, gusti e modi di vivere.

E’ il sogno di tutte le età dell’uomo che si realizza, è Ulisse che ha superato le colonne d’Ercole e ha spiccato il folle volo senza che ci fosse un Dio a fermarlo, stavolta.

Il repertorio di aggeggi pensati dalla fantascienza più scatenata è a disposizione, si può andare e venire dal reale al virtuale nel tempo di un bit e lasciarsi alle spalle vite squallide, segnate da inquinamento, povertà, sovrappopolazione, privazioni, orphanage, grattacieli di baracche in precario equilibrio l’una sull’altra (è il distretto chiamato le Cataste, favelas verticali che fanno rimpiangere le baraccopoli di Pietralata).

Ci guida Parzival, avatar quasi wagneriano del teenager Wade Watts (Tye Sheridan)che nella realtà vive da orfano nelle Cataste con la sciamannata zia e i suoi dementi amanti di turno.

 

Con Artemis, avatar tutto mitologico di Samantha (Olivia Cooke), sarà l’eroe di una guerra tra le più virtualmente devastanti la fantasia e i mezzi del cinema abbiano mai inventato.

Fanatico come tutti di Oasis, Parzival ingaggerà una lotta all’ultimo sangue (pardon circuito) con menti perverse che vorrebbero snaturare quel mondo, nato dalla pura fantasia bambina di Halliday, per realizzare facili guadagni.

 

Ma la guerra virtuale non possono che vincerla i buoni che sanno tornare al mondo reale e coglierne la bellezza, ecco perché la massima di cui sopra.

Se poi tornare alla realtà sia un bene è ancora tutto da dimostrare, ma Ready Player One è l’ultimo parto di un artista che la realtà l’ha esplorata in lungo e in largo e la conosce a fondo.

Passiamo allora alla seconda massima importante:

 

In Oasis l’importante non è vincere ma giocare

 

I cattivi volevano vincere, una multinazionale tentacolare aveva messo in piedi un’impresa destinata a controllare il mondo intero. Capo dell’operazione tale Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn), nome che suona mafioso a prova che neanche nel cyberspazio ci libereremo dalle mafie.

Vince, però, chi sa giocare.

scena

Ready Player One (2018): scena

 

Per dirci tutto questo Spielberg gioca, e non dimentica il bambino che è stato anche lui in tempi in cui si cominciava con mostri di plastica, alieni, quarta dimensione ecc.

Tempo ne è passato e da quei simpatici mostriciattoli e consolle artigianali si è arrivati dove solo il genio di Fritz Lang aveva ipotizzato quasi un secolo fa con Metropolis.

Masse decerebrate asservite dalla tecnica manovrata da una mente pensante.

Dunque bisogna scoprire le chiavi della salvezza.

Innanzitutto l’amore, e poi un po’ di altre cosette che ci penseranno due ore e venti di film a raccontare.

 

Spielberg si cita e cita altri, pare che l’autocitazione non gli fosse troppo gradita, ma la lotta con lo staff dei tecnici perché cancellassero riferimenti ai suoi film è stata impari.

Dalla Delorean volante di Parzival al cubo di Zemekis che riavvolge il tempo, dalle musiche di Alan Silvestri che musicò Ritorno al futuro all’ ”agghiacciante” tirannosauro di Jurassic Park (e a questo punto, per onor di firma, non poteva mancare King Kong, superpotenziato eroe ballerino fra i grattacieli newyorkesi che si spiaccica in mezzo al traffico di una highway ) il film è un delizioso patchwork di vecchie glorie per nuovi giochi.

 

Manca l’astronave di Incontri ravvicinati e sarebbe stato del tutto fuori luogo inserire qualcosa di Schindler’s List, su questo Spielberg è stato irremovibile, ma i momenti migliori di un film citazionista come questo sono l’arrivo degli altri, i Duran Duran e soprattutto Kubrik, una sequenza godibile dall’inizio alla fine con quella massa di muscoli dell’amico gigante di Parzival che gira mezzo impazzito dalla paura per i corridoi dell’Overloock Hotel.

 

Un grande spettacolo creato da una mano raffinata, capace di convincere al genere anche gli spettatori più incalliti nel suo rifiuto.

Alla fine dello spettacolo la distanza si è annullata, abbiamo capito che quelli siamo noi, scrittori compulsivi su Whatsapp, comunicatori virtuali su Istagram, membri onorari di social network che ci dicono come mangiare, vestirci, pensare, votare.

C’inventiamo avatar, ci fingiamo più giovani o più vecchi, a seconda delle necessità, ingaggiamo battaglie virtuali che spesso finiscono male anche nel reale.

Cosa c’è di diverso fra noi e tutto quel tumulto sullo schermo?

 

C’è che noi non siamo artisti e Spielberg lo è. La differenza è tutta qui.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

 

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