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A Beautiful Day

Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film

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La recensione su A Beautiful Day

di mck
9 stelle

CountDown. “Hey, Joe? Wake up. Let's go. It's a beautiful day.”

 

Lynne Ramsay, scozzese (nata a Glasgow e graduata a Edimburgo) classe 1969, parca autrice di 4 lunghi (“RatCatcher”, “Morvern Callar”, “We Need to Talk About Kevin” e il presente “You Were Never Really Here”) e 4 corti (i tre d'esordio a metà anni '90 e lo splendido “Swimmer” del '12) in circa 20 anni [(1996) 1999-2017 (2019)], scrive - come sempre - (in questo caso traendo la sceneggiatura dal romanzo omonimo del Jonathan Ames di “Bored to Death” e “Blunt Talk”) e dirige qui il Corpo Filmico (semi-, para-) Hollywoodiano (dintorni, pressi, paraggi) per eccellenza di questi tempi [più di quelli granitici e al contempo traslucidi di Brad Pitt, Matt Damon ed Ethan Hawke, più di quello intangibile, coccoloso ed epitome del prototipo inesauribile e necessario alla Tracy-Grant-Stewart-Peck di George Clooney, più di quello “off” e alt(e)ro di Daniel Day-Lewis, più di quello collaterale e ur-caratterizzato di Michael Shannon], quello bolso ma muscoloso, neotenico [da ragazzino abusato (da un padre violento e molestatore che ri-s/v-ersava lo stesso trattamento alla moglie/madre) a uomo traumatizzato - soldatino prima (le invasioni difensive e vendicative in Afghanistan e le missioni di esportazione della democrazia e gli attacchi preventivi in Iraq) e agente F.B.I. poi (tratta delle asiatiche) -, e da Norman Bates mancato a sicario precariamente realizzato] ma cicatriziale di Joaquin Phoenix (James Gray, M. Night Shyamalan, Paul Thomas Anderson, Spike Jonze, Woody Allen, Jacques Audiard), e con lui trova la quadratura del cerchio per dirigere forse il suo film migliore e più compiuto (considero invece “We Need to Talk About Kevin”, il film girato immediatamente prima di questo, il suo meno riuscito e rilevante), una consapevole ed evidente, riflessiva e rimarcata cannibalizzazione, insorgente ulteriore (dis)senso condiviso, degli stilemi di alcuni dei più importanti autori contemporanei: innanzitutto il binomio Scorsese/Schrader di “Taxi Driver” e “Bringing Out the Dead”, il Kubrick di “Eyes Wide Shut” (una New York ripresa in questo modo s'è vista e ascoltata solo nel film co-sceneggiato con Frederic Raphael e tratto da Arthur Schnitzler, e forse in “In the Cut” di Jane Campion e Birth di Jonathan Glazer, e ovviamente in alcuni Woody Allen, ma con risultanze formali se non propriamente contenutistiche sostanzialmente all'opposto diametrale) e l'Eastwood di “Absolute Power”, e poi anche scorci del Lynch di “Blue Velvet”, il Jarmusch di “the Limits of Control”, il N.W.Refn di “Valhalla Rising” e “Drive”, e, volendo esagerare, il John Cassavetes di “Gloria”. Invece un film che spesso e volentieri gli viene accostato, "Léon", lo trovo agli antipodi tanto morali (in ciò più vicino a Refn) quanto materiali.

 

 

Accanto a lui, due ottime attrici, una veterana e una semi/quasi esordiente: la madre, Judith Roberts (“EraserHead”, “StarDust Memories”, “the Heart, She Holler” e la Taslitz di “Orange Is the New Black”) e “una” figlia, Ekaterina Samsonov (“Anesthesia”, “Wonderstruck”). 

 

 

Fotografia (il riflesso di uno specchietto retrovisore laterale viene messo a fuoco mentre il vetro motorizzato si muove modificando da fermo il punto di vista e di ripresa ad inquadrare lo spostamento dell'attenzione del protagonista) di Thomas Townend, promosso al ruolo dopo essere stato operatore alla macchina e direttore della fotografia della seconda unità in tutti e tre i film antecedenti di Ramsay (fotografati da Alvin H. Kuchler e Seamus McGarvey); montaggio dell'herzoghiano Joe Bini, già con la regista per l'antecedente film, “WNtTAK” (sostituendo la montatrice Lucia Zucchetti), e recentemente al lavoro su “American Honey” di Andrea Arnold, che dialoga fruttuosamente col sound design di Paul Davies, andando a creare magnifici inserti analettici sotto forma di glitch audio-video; musiche di Jonny Greenwood (anche lui già con Ramsay per il film precedente, “WNtTAK”, oltre che colonna portante degli ultimi P.T.Anderson), interlacciate perfettamente al racconto, in reciproca sintonia. 

 

 

* * * * ¼ - 8 ½    

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