Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film
Lungo quel lungo cammino che chiamiamo vita, ci sono eventi che segnano irreversibilmente la formazione di un uomo, insediandosi nel subconscio senza una data di scadenza. In più, ce ne sono altri che scatenano una concatenazione d’azioni inevitabili, un movimento tellurico che non si può interrompere.
Nel caso di You were never really here (a proposito, tradurre un titolo originale con un altro in inglese è una prassi difficile da comprendere), si parla – in entrambi i sopracitati casi - di fratture che richiamano le peggiori esperienze umane, possibili e immaginabili, con la violenza di genere che subisce l’aggressivo imprinting di una visione d’autore.
Quando la giovane figlia (Ekaterina Samsonov) di un senatore scompare, Joe (Joaquin Phoenix), un sicario, un uomo trascurato con alle spalle brutalità di ogni risma, è ingaggiato per ritrovarla.
In breve la rintraccia, ma si trova di fronte a un avversario che non ha alcuna intenzione di rinunciare al suo giocattolo umano, forte di una posizione di potere che gli garantisce i mezzi coercitivi per ribattere con estrema ferocia all’iniziativa di Joe.
Se si parla di materia tosta e di rappresentazioni giudicabili come fastidiose da parte dello spettatore benpensante, il nome della regista scozzese Lynne Ramsay non compare nella lista di chi si tira indietro, come già ampiamente dimostrato con il precedente …e ora parliamo di Kevin.
Anzi, in questo caso rincara la dose, evitando soluzioni di comodo, procedendo per lacerazioni, delle immagini ma anche dell’esecuzione, che evita la spettacolarizzazione della violenza, rappresentandola in tutta la sua sintetica brutalità.
Dunque, lo scenario s’intuisce nelle pillole espresse dalla trama, ma nel comporlo viene accuratamente evitato di procedere alla semplice unione dei puntini narrativi, scarni di numero, prediligendo apporre strappi che contrassegnano una secca scia di sangue, con protagonisti uomini moralmente putrefatti (con un politico in prima linea, chi altri?) e le peggiori nefandezze e perversioni da limare a colpi di martello.
Un assetto privo di ricami, che non prende nemmeno lontanamente in considerazione l’ipotesi di starsene quieto al suo posto, lasciando giusto brevi scampoli di tenerezza, quella instaurata da sempre tra una madre e un figlio, ma anche quella improvvisata tra due sconosciuti – Joe a la ragazzina –, ai quali basta un battito di ciglia per far sì che sembrino conoscersi da una vita.
Situazioni permeate sulla gigantesca interpretazione di Joaquin Phoenix, uno tra i pochi attori in circolazione capace di riempire gli spazi vuoti, anche quelli che in apparenza sembrano essere meno penetranti. Presentato con un corpo martoriato dalle cicatrici e segnato da un’anima disillusa, l’attore statunitense – giustamente premiato a Cannes quale miglior interprete – è completamente in simbiosi con il film: incolto come la sua barba e ferino oltre qualsiasi idea programmatica.
Un fiorire di attributi, ai quali va aggiunta la dissonante composizione musicale curata da Jonny Greenwood (Il filo nascosto), che segnano una traiettoria abitata da mostri e relitti umani, disturbante per come recede la fruizione di automatismi facili da conseguire, con scatti improvvisi di violenza, allucinazioni e occhi che fissano il vuoto.
Un meccanismo respingente, un’esperienza straniante che toglie bruscamente le facili soddisfazioni, grazie a un’angolazione dello sguardo assolutamente autorevole.
Spettatore avvisato, mezzo salvato e – si spera - mezzo allettato.
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