Regia di John Carroll Lynch vedi scheda film
Lucky (Harry Dean Stanton) è un novantenne ancora autosufficiente e affatto timorato di Dio. Vive da solo nella sua casa immersa in una zona desertica, non si è mai sposato e indossa sempre un cappello da cowboy. Tiene allenata la mente facendo le parole crociate e guardando i giochi a quiz alla televisione e ogni mattina fa esercizi ginnici per tenere in forma il corpo. Lucky è abbastanza abitudinario, la mattina la passa alla tavola calda di Joe (Barry Shabaka Henley), con il quale si confronta sulle nuove parole trovate facendo i cruciverba, la sera al locale di Elaine (Beth Grant), dove oltre a Paulie (James Darren), il compagno della donna, e a Vincent (Hugo Armstrong), il barman, ha modo di incontrarsi spesso con l’amico Howard (David Linch), un uomo abbastanza bizzarro che è in pena perché la sua amata testuggine si è allontanata da casa. La spesa, invece, la fa sempre al negozio di Bibi (Bertila Damas), una bella donna che gli ricorda la sua passione per la cultura messicana. Qualcosa cambia nella vita ordinaria di Lucky quando un mattino si trova svenuto a terra senza neanche accorgersene. Nonostante all’ospedale gli abbiano detto di essere in perfetta salute e che la cosa può essere dipesa semplicemente dalla vecchiaia, Lucky inizia a convivere diversamente con la sua età.
“Lucky” è un “on the road” crepuscolare che procede piano senza farsi prendere troppo dagli affanni, un film venato di dolente romanticismo che segue l’andamento dinoccolato del vecchio e il tempo che ci mette nell’assaporare il valore delle cose. John Carroll Linch (c’è solo omonimia col più celebre David) fa della lentezza la cifra stilistica caratterizzante di questo affascinante viaggio esistenziale compiuto lungo il crinale della vita. “On the road” perché la storia di Lucky da il senso di voler propendere verso altri luoghi pur girovagando continuamente nei posti di sempre, di essere alla scoperta di un qualcosa che dia un senso più compiuto alla sua esistenza pur rimando immobile sul suo divano e avendo come fondamentale alimento per la mente le sole parole crociate. Di sprigionare un contagioso amore per la libertà. Un viaggio molto atipico quindi, che prende via via consistenza e che oscilla tra la pretesa involontaria di voler penetrare quel mistero chiamato vita e il confrontarsi pudico con l’approssimarsi della morte. “Lucky” non è un film sulla vecchiaia, ma su ciò che significa sentirsi vecchio ed essere avvertito come tale da tutte le persone che ti girano intorno. Un mistero anche per Lucky, che per età anagrafica dovrebbe essersi abituato all’idea di vecchiaia e ad essere trattato dagli altri con tutte le cautele del caso. Ma a preoccupare Lucky non è tanto la vecchiaia in se, da buon “analista” di parole qual’è sa benissimo che quella di “anziano signore” è la definizione che più gli si addice. A metterlo in stato di ansia è il pericolo di dover perdere la libertà di potersi muovere in totale autonomia, di vedersi soccombere sotto il peso di una solitudine che volontariamente ha scelto come sua compagna di vita. Lucky sa bene che applicata alla sua persona la vecchiaia rappresenta una verità di fatto ed in quanto tale non può essere messa in discussione, un dato del reale “per cui si accetta una circostanza per quella che è, e si è pronti ad affrontarla di conseguenza” (come legge sul dizionario alla voce “realismo”). Ma poi tutto dipende dal come ci si rapporta con le “verità di fatto”, dal punto di vista che si adotta, dal ruolo che si occupa nel disegno sociale. Si può essere un cactus del deserto o una testuggine che si rinchiude nel suo guscio, essere viventi che si accompagnano per decenni alla vita del mondo crescendo e muovendosi con la lentezza di sempre, oppure paragonarsi ad una banale sigaretta, una cosa inanimata che si consuma velocemente donando solo pochi attimi di piacere a chi fuma. Ogni cosa può avere uno scopo e servire per uno scopo, sembra questa la constatazione cui arriva Lucky semplicemente parlando con delle persone raccontandosi delle cose, che gli appaiono come caricate di un valore sottinteso più chiaro, capaci di fargli scorgere più in profondità il senso della vita. Come l’incontro con Fred Sparks (Tom Skerritt), un ex marines che come lui ha conosciuto l’esperienza bellica nel Pacifico, che gli racconta che la guerra gli si è presentata in tutta la sua gratuita crudeltà quando ha preso le forme di una bella bambina sorridente che mostrava di essere serena nonostante intorno a lei ci fosse solo morte e distruzione (“Non esistono medaglie per quel tipo di coraggio”, dice ad un certo punto). O quello con l’avvocato Bobby Lawrence (Ron Livingston), che nel ricordarsi di quando un camion in corsa ha mancato di soli pochi centimetri di investire in pieno la sua auto, si è messo a riflettere su quanto sia andato vicinissimo alla perdita di tutto. Oppure le parole dell’amico Howard (un David Linch in parte, allucinato e divertente insieme, che pare abbia accettato il ruolo come segno di ossequio per il “vegliardo” Harry Dean Stanton), che arriva alla conclusione che la sua Roosevelt (così si chiama la sua testuggine) se n'è andata per dimostrargli quanto gli volesse bene.
Ecco, Lucky scopre di somigliare di più ad una sigaretta se lo si rapporta all’eterna totalità dell’universo, non è che “n’u cazz” (come si ripete spesso lungo tutto il film, in napoletano arrangiato) rispetto alle infinite possibilità che l’intrecciarsi delle vicende umane hanno di incidere sul destino di ogni singola persona donandogli altre prospettive da cui poter guardare le cose. Lucky arriva a tutto questo per tappe successive e in una maniera apparentemente fortuita, come chi intende raggiungere una nuova consapevolezza di se dando a questo particolare percorso interiore la stessa importanza ludica che attribuisce allo svolgimento delle amate parole crociate. Così, gli incroci sono come le persone che di volta in volta si incontrano lungo la propria strada, e le loro narrazioni sono come le parole rispondenti alle definizioni che servono a delineare di più e meglio l’intero mosaico. Lucky arriva alla fine del suo viaggio “immobile” passando dalla preoccupazione ansiosa alla consapevolezza acerba, dalla paura panica di morire alla quieta accettazione del proprio destino. Dalle verità che non possono essere applicate indifferentemente in ogni circostanza all’unica verità accertata e riconoscibile che “riguarda ogni essere vivente : che tutto svanisce”.
Ambientato in una zona desertica, “Lucky” sembra voler appositamente ricalcare le atmosfere crepuscolari ed intimiste di “Paris Texas” di Wim Wenders. Per omaggiarne il protagonista, evidentemente, che allora come adesso ha dimostrato di saper essere un volto e un corpo al servizio di un’idea di Cinema intrisa di laica spiritualità. Harry Dean Stanton morirà poco prima dell’uscita nelle sale di questo film, che per lui è stato pensato e per ricalcarne la figura d’attore è stato girato. A me piace ricordarlo attraverso la struggente sequenza in cui canta “Volver” durante una festa messicana animata dalla musica mariachi. Trova il coraggio di iniziare ad intonare la canzone e a convogliare verso di se l’attenzione di tutti. La sua voce flebile si fa sempre più penetrante, sembra un inno alla vita, l’invito ad amare la libertà sopra ogni altra cosa e a fare solo le cose che ci rendono realmente felici. La grande interpretazione di un grande attore per un grande film.
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