Regia di John Carroll Lynch vedi scheda film
Difficile riuscire a prescindere, commentando questo film, dall’emozione che suscita il sapere che, di lì a poco, Harry Dean Stanton, classe 1926, 204 in totale i suoi accrediti in carriera come attore (oggi poco contano, data l’oggettiva mostruosità della sua carriera, le mie personali riserve su quello che era il suo reale talento) sarebbe morto. E’ commovente infatti la generosità con cui concede il suo corpo, la sua vecchiaia (quella di tutti), simbolicamente tutta la sua esistenza di uomo forse prima ancora che di attore, grazie anche all’intelligenza (che definirei molto seria e professionale) dell’ottimo John Carrol Lynch (qui all’esordio in regia, nessuna parentela con il grande regista/pessimo attore suo omologo David che qui maldestramente appare), che sa usare il vecchio corpo di Stanton senza cadere mai nella retorica, nel pietismo, nella spettacolarizzazione, evitando di ricreare quella sorta di corto circuito assurdo e blasfemo per cui i vecchi (non chiamiamoli anziani) dovrebbero ispirare un po’ la stessa simpatia che suscitano i bambini. Anche perché Lucky/Stanton potrebbe anche risultare simpatico (volendo, come è successe a me) ma, anche se fosse, non sarebbe mai successo certamente per sua espressa volontà o aspirazione.
Lucky/Stanton non è mai (né mai vuole essere) né l’ex bambino con le rughe e gli acciacchi, né il vecchio brontolone che ce l’ha su con tutti; ha un sacco di amici nella realtà, dentro la televisione, all’altro capo del filo di un telefono rosso dove non c’è nessuno e dove pure trova e custodisce il suo miglior amico. Non è un rassegnato e non è un nostalgico: è solo un uomo (un ex militare della marina, “Fortunato” perché era solo un semplice cuoco impiegato sulle navi da guerra) nel pieno delle sue (magari residue, maledizione!) facoltà fisiche e psichiche, dalle quali vuole attingere a piene mani (e a pieni polmoni, per quanto fuma, a dispetto dei dottori), ignorando coscientemente, senza eroismo, ma con totale umanità e senza sdraiarsi sui ricordi (che pure non rifiuta), i presunti torti, tutti da verificare, di quel Tiempo che la bellissima canzone sui titoli di testa, credo volutamente “abortita” ad un passo dalla sua conclusione (incipit quindi già orientato quindi a quella “non mortalità” – diverso da immortalità - che è il manifesto del film), canta in maniera struggente, com’è classico delle canzoni mariachi. E la sceneggiatura (non certo meno intelligente della regia) credo si possa dire che vorrà fissare il climax del film proprio quando Lucky, rubando la scena durante una festa di compleanno al quale partecipa quasi per caso, canterà in spagnolo un’altra canzone dello stesso genere mariachi, intitolata “Volver”, tornare, che è un verbo che si coniuga e si associa col sostantivo “Tiempo” meglio che con qualunque altra parola.
“Lucky” è un film a mio avviso molto bello, molto denso, ben strutturato, ben calibrato (prova ne sia come in soli ottanta minuti riesca ad avere lo stesso peso specifico che altri film ottengono magari solo al terzo capitolo di un’esasperata trilogia di film di due ore ciascuno), forse inconsciamente buddhista (oddio... esagero?), ben raccontato attraverso i migliori canoni del cinema (vogliamo brindare anche noi, per un attimo, a come viene raccontata ed inscenata la storia del Presidente Roosvelt, la tartar.... no, per carità: testuggine! – nient’altro che un alter-ego di Lucky/Stenton- che andrà Tornando nel suo Tempo di ultra centenario nella scena finale?).
Arriva in Italia col solito, colpevole ritardo. Una volta tanto non fa niente: la morte può aspettare. Intanto che arriva, però, consiglio a tutti, e come al solito, di sceglierlo ove possibile in lingua originale. Comunque sia, di non perderlo.
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