Regia di Mélanie Laurent vedi scheda film
Pur con buon ritmo e senso del dramma che si alimenta, come gli uragani,dal tepore e della stagnante aria del sud,il film della Laurent è un concentrato di luoghi comuni e schematismi narrativi che soffre gli scompensi di uno script a velocità variabile e di un finale di roboante tragicità che ne vorrebbe chiudere definitivamente il senso.
Con la spada di Damocle di un sospetto carcinoma polmonare e quella assai più certa di essere ormai fuori dal giro delle estorsioni a seguito della congiura ordita ai suoi danni dal proprio boss, Roy sfugge all'agguato mortale che avrebbe dovuto liquidarlo, portando con sè una giovane prostituta sopravvissuta agli stessi killer. La sua fuga nella cittadina costiera di Galveston, insieme alla ragazza ed alla giovane figlia di quest'ultima, sarà l'occasione per garantirsi l'ultimo salvacondotto possibile ma anche quella per assecondare un sentimento di solidarietà umana che non avrebbe mai creduto di possedere. Il destino però incombe minaccioso, come i devastanti tornado che flagellano da sempre il golfo del Messico.
Hurricane Roy
Roy&Rocky è una coppia che si crea molto presto nell'economia di una script che asseconda la natura letteraria on the road del soggetto che l'ha ispirato; forse troppo presto, saltando dal breve prologo di una diagnosi potenzialmente infausta alla rocambolesca fuga di due derelitti che incrociano le proprie traiettorie lungo una direttrice apparente di redenzione e di riscatto. Insomma tutto da copione, con due personaggi che l'urgenza degli eventi che gli capitano tra capo e collo esime dalla necessità di una doverosa introduzione, rivelando la struttura preordinata e schematica di un noir in cui la bassa pressione e la bassa manovalanza criminale ne definiscono climax e destinazione finale, tra squallidi motel con vista sull'oceano, ricatti telefonici un po' telefonati ed il tema ricattatorio di una solidarietà umana che apre una parentesi di apparente tranquillità prima della prevedibile tempesta finale. Pur dotato di un buon ritmo e di un senso del dramma che si alimenta, come gli uragani, dal tepore e dalla stagnante aria del sud, il quarto lungometraggio (il primo americano) della bionda transalpina Mélanie Laurent è un concentrato di luoghi comuni e schematismi narrativi che soffre gli scompensi di una sceneggiatura a velocità variabile (prologo ed epilogo precipitosi ed una parte centrale un po' debole) e di una chiusa finale che nella sua roboante tragicità vorrebbe dare un senso definitivo ad una storia che gli eventi avevano inopinatamente sospeso tra un evento catastrofico ventennale e l'altro. Mélanie Laurent sostituisce in corsa Janus Metz come regista del film, mentre la faccia un po' troppo pulita di Matthias Schoenaerts viene meglio rimpiazzata dalla maschera dolente e rabbiosa di un tarchiato e carismatico Ben Foster, uomo alla deriva che riassume molte delle contraddizioni e del materialismo misticheggiante dei caratteri di Flannery O'Connor. Girato non a caso nei pressi di Savannah - Georgia piuttosto che lungo le coste dell'omonina località costiera texana e presentato al South by Southwest, se ne attende il battesimo del fuoco di una sua distribuzione world wide (web?).
Si fa a strisce il cielo e quella bassa pressione è un film di seconda visione,
è l' urlo di sempre che dice pian piano:
"Non siamo, non siamo, non siamo..."
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