Regia di David Bruckner vedi scheda film
Scandinavian Gods.
Moder, uno jötunn gran figlio di Loki, fece un fantoccio di carcasse di giovinotto, e tutti i bifolchi vennero sul limitar della radura a vedere il fantoccio di carcasse di giovinotto fatto da Moder, lo jötunn gran figlio di Loki. Ok, non sono terzine incatenate, ma nemmeno David Bruckner, quasi mezzo secolo dopo “the Wicker Man” e “Deliverance” e un paio d'anni prima di “MidSommar” (e due paia rispetto al recente “A Classic Horror Story”) - questi sono i punti cardinali delle coordinate tematiche di riferimento, poi in mezzo e tutt’intorno c’è tutto un mondo ulteriore, che può comprendere persino (grazie ad una precisa situazione, esplicita tanto dal PdV figurativo quanto da quello contenutistico, inscenata durante il climax d'agnizione sacrificale verso la fine) la saga di "King Kong" -, alla sua opera prima in solitaria [dopo vari cortometraggi, declinati come segmenti di film collettivi/antologici o episodi di serial - “Signal”, “V/H/S”, “SouthBound”, “CreepShow” -, in vista del recente “the Night House” e in attesa del reboot di “HellRaiser”], mettendo in scena la sceneggiatura di Joe Barton, adattamento del romanzo di Adam Nevill, s’impegna più di tanto oltre il dovuto, eddai: eppure il film, ch'è l'allestimento di un androide luogo del disastro kinghiano (mi riferisco a "DreamCatcher" del 2001, poi traslato al cinema da Lawrence Kasdan e William Goldman nel 2003), tirate le somme, alla fine risulta ben più che godibile (senz’altro maggiormente rispetto alla mia parafrasi di filastrocca, e va beh).
Ah, Moder è un incrocio fra un preistorico cervide mastodontico (Megaloceros giganteus), un alce sesquipedalico, un cervo volante (Lucanus cervus) e un kratt estone in salsa norrena (“November”, Rainer Sarnet, 2017), con inserti di spoglie umane marionettabili. E molto ben gestito è il suo progressivo disvelamento.
Illustrazione di David Romero / ArtStation (cliccare sull'immagine per ingrandirla).
Buon cast, a tratti ottimo, tra il rimorso e il rimosso ("Sauna", Antti-Jussi Annila, 2009) e l’inadeguatezza strutturale/manifesta e quella emergente innanzi all’imponderabile: Rafe Spall, Robert James-Collier, Arsher Ali e Sam Troughton (e Paul Reid, Maria Erwolter, Francesca Mula e Kerri McLean). Fotografia di Andrew Shulkind, montaggio di Mark Towns, musiche di Ben Lovett. Fra i produttori c’è Andy Serkis. I crinali boscosi dei carpazi rumeni (e fanno capo a Bucarest anche le scenografie di Adrian Curelea e Diana Ghinea) interpretano quelli svedesi (che non è come se Chioggia impersonasse Venezia, ma insomma...).
Due scene poco chiare, in un film per altro di una limpidezza estrema (intesa in quest’occasione come qualità neutra, cioè tecnica): nel pre-finale, la tortura (frollatura), della quale non si comprende l'utilità (divertimento? Ok!), somministrata al malcapitato di turno in attesa d’essere immolato in sacrifizio al semi-dio creaturiforme, e, in generale, il senso del marchio, ovvero del prescelto: probabilmente si tratta di persone con una colpa tale sulle spalle, nella società reale, là fuori, oltre gli alberi, da trovare un paradiso nel villaggio nella radura/recinto al di qua dello scorrere del tempo.
Un momento (à la “Raiders of the Lost Ark” + “Bud Spencer & Terence Hill”) che forse voleva essere compiutamente ironico, ma soffre di una realizzazione un po’ cringe: il cazzotto sul grugno alla vecchia.
Scandinavian Gods.
* * * ¼
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