La recensione su Il rituale

di undying

2 stelle

Un film suddiviso in due tempi decisamente opposti per intenzione (suggerito Vs esplicito) e risultato (ottimo Vs non pervenuto). Tecnica di messa in scena sopra la media, per una sceneggiatura a dire poco risibile. Banali anche i tentativi di approfondimento psicologico dei protagonisti.

Cinque amici di vecchia data decidono di intraprendere un'avventura nei sentieri montuosi della Svezia. Uno di loro, viene ucciso durante una rapina. Sei mesi più tardi gli altri quattro intraprendono comunque l'avventura. A causa di un incidente occorso ad uno del gruppo, il percorso del trekking viene abbandonato, con la scelta di prendere una scorciatoia lungo la foresta. Sarà l'inizio di un incubo, costellato da strani simboli rinvenuti sui tronchi degli alberi, capanne apparentemente abbandonate con all'interno impressionanti fantocci senza testa e, peggio che mai, una presenza non umana che dà loro la caccia.

Il cineasta David Bruckner non è certo l'ultimo regista arrivato sulla scena a dirigere un horror. Al contrario ha già un curriculum (di qualità discutibile e poco prolifico) che parte con il debutto del 2007, The signal. Prosegue con il segmento del collettivo V/H/S sino al secondo lungometraggio, Southbound (2015). Nel 2017, invece, si trova coinvolto in una pastrocchiata sceneggiatura, ispirata ad un romanzo di Adam Nevill, che dà origine a questo straight to TV (anche da noi è arrivato, perché del peggio non ci facciamo mancare niente, su Netflix) dall'infelice inviluppo che, a partire dall'ora, si protrae sino ad oltre novanta minuti demolendo quanto di buono (quasi ottimo) la potente regia era riuscita a creare nella prima parte.

Le suggestioni, intrecciate ai sensi di colpa per la morte dell'amico, trovano in questa segmento del film un ottimo supporto dato anche dalle efficaci location naturali, stabilite in Romania per girare al risparmio (prassi di molti lavori realizzati negli ultimi anni). Poi purtroppo la produzione (inglese) decide di voltare pagina e nella terza parte (la più brutta, al limite dell'infantile) decide di mettere in scena questa creatura, divinità o quant'altro la mente malata dell'ideatore grafico ha concepito. Ispirato un po' dallo stile di H.R. Giger e un po' dal mito del Wendigo qui -con supporto di effetti in CGI che tra qualche anno saranno già sorpassati- ci viene prospettata questa enorme creatura in grado di fare stretching (sic) e di esigere (in una sequenza debitrice al celebre King Kong) il suo sacrificio umano più o meno quotidiano.

Arsher Ali, Sam Troughton, Rafe Spall, Robert James-Collier

Senza dare spiegazione sulla micro società che gravita attorno alla fantastica (nel senso di irreale) creatura e su elementi centenari e incartapecoriti rinchiusi in una capanna (ma si può arrivare a tanto?), Il rituale spara -in soli venti minuti- una fila di stupidaggini in grado di azzerare completamente l'attenzione e l'interesse dello spettatore. Dovrebbe essere preso da esempio sulla differenza che esiste tra un tipo di cinema riuscito, efficace, plausibile e realizzato con basso budget lavorando sulla suggestione (il primo tempo), contro il più dispendioso, ridicolo e inverosimile cinema che vuole mostrare -in dettaglio- quello che non può esistere (il secondo tempo). Al di là dello scarso esito finale, e a dispetto di qualche riconoscimento raccolto ai Festival di settore, dispiace assistere allo sperpero ingiustificato di una regia che è davvero di qualità come certificano -ad esempio- le riprese con M.d.P. in elevazione sulla foresta.