Regia di Craig Gillespie vedi scheda film
Tonia Harding (Margot Robbie) è stata una campionessa di pattinaggio su ghiaccio, vincitrice del titolo nazionale nel 1991, quando fu la prima atleta statunitense ad eseguire il triplo axel in una competizione agonistica. Iniziata fin da piccola (Mckenna Grace) al pattinaggio, Tonya è seguita con fredda severità dalla madre (Allison Janney), una donna anaffettiva che la educherà ad avere un rapporto rabbioso con lo sport e che sempre gli farà mancare il senso più autentico dell’amore materno. Sua allenatrice è stata Diane Rawlinson (Julianne Nicholson), che ha sempre cercato di migliorarne il talento epurandone le intemperanze caratteriali. Ancora giovanissima, conosce e sposa Jeff Gilloly (Sebastian Sten), col quale instaurerà un rapporto assai controverso, continuamente oscillante tra la complicità amorevole e momenti di ordinaria violenza domestica. Per stessa ammissione di Jeff, il loro travagliato rapporto ha impedito a Tonya di fare una carriera diversa, soprattutto per il fatto di averla coinvolta ben oltre le sue iniziali intenzioni nell’aggressione che costrinse la promessa del pattinaggio Nancy Kerrigan (Caitlin Carver) a ritirarsi dai campionati nazionali valevoli per la selezione alle Olimpiadi invernali del 1994.
Tonya Harding non sapeva del piano messo a punto dal marito per mettere fuori gioco la rivale e si autoaccusò solo delle minacce anonime a cui dovevano limitarsi e del fatto di non aver accusato successivamente gli ideatori della vile aggressione. Soprattutto Shawn Eckhardt (Paul Walter Hauser), amico del marito poi diventato sua guardia del corpo. Tonya venne espulsa dalla federazione e, passati i primi momenti di tristezza, si diede alla boxe. Giusto per farsi rimanere ancora per qualche tempo le luci dei riflettori addosso. E cosi poter “pagare le bollette”.
Ispirato alla storia vera della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding, “Tonya” di Craig Gillespie è un biopic che sa far trasparire un’attenta analisi sulla provincia americana pur rimanendo concentrato sulle vicende esistenziali della donna. La didascalia che apre il film ci avverte che le vicende rappresentate sono “tratte da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia, con Sonya Harding e Jeff Gilloly”. Come a volerci subito avvertire sulle modalità di racconto usate per portare su schermo una storia controversa dai contorni tutt’altro che chiari. Costruito passo dopo passo attraverso le interviste fatte ai protagonisti-attori, il film si mantiene sul continuo equilibrio tra il serio e il faceto, tra la ricostruzione veritiera di un fatto di cronaca che suscitò scalpore nel mondo dello sport e la tipizzazione a tratti caricaturale di quasi tutti i personaggi. A rendere leggero il tutto contribuisce non poco anche il montaggio, che alterna la rappresentazione dei fatti narrati con chi li narra in una maniera mai invasiva ed inopportuna, con il giusto brio, teso a disinnescare il senso del tragico che aleggia nella storia nella natura chiaramente contraddittoria di chi l’ha prodotta. Insomma, Gillespie usa molta ironia nel caratterizzare i contorni di una storia che culminò nell’aggressione della promessa del pattinaggio su ghiaccio Nancy Kerrigan, ma questo non impedisce al dramma di farsi strada ed assumere le fattezze di un qualcosa che presenta anche delle radici culturali più ampie e più profonde.
La vita di Tonya ci viene restituita per quella che è stata, rappresentata senza retorica o gratuite derive agiografiche. Caotica e disordinata per come poteva essere prodotta dalla sua indole rabbiosa, carente di calore filiale e di serenità affettiva, priva di quello spirito competitivo che dovrebbe caratterizzare ogni sportivo. L’intento di Craig Gillespie non è stato certo quello di edulcorarne la figura attraverso un quadro consolatorio. Semmai si è preoccupato di allargare il campo di visuale e far emergere tra le pieghe di un “fedele” resoconto biografico i caratteri identitari di un intero paese. Soprattutto quelli della sua provincia più profonda, quella più nascosta e perciò meno affascinante, lontana dalle luci della ribalta e vicina a quella realtà di tutti giorni dove si preparano ostacoli ad ogni angolo di strada. La provincia di un paese che produce aspettative in serie destinate in massima parte a rimanere inevase, che offre un’opportunità a tutti ma che fa pagare dazio a chi non riesce a tenere il passo.
Tonya ha pagato ben oltre i suoi i innumerevoli errori, la sua colpa principale è stata quella di crescere senza ricevere amore e di non averne a sufficienza per poterlo trasmettere. Aspetto che agisce nella pratica di uno sport che esige più eleganza nei movimenti che rabbia espressa con il corpo, più grazia nei comportamenti che un talento disorganizzato. Tonya scopre quando è troppo tardi che le cose non vanno come gli ha sempre detto la madre, che non è vero che bisogna essere arrabbiati per poter emergere e andare avanti, ostentare un carattere duro per poter competere nell’arena dello sport individuale. Che va bene essere cresciuta povera e avere origini contadine, ma solo se questo si può tradurre nella retorica a buon mercato “dell’atleta di umili natali che è riuscito a farcela da solo” e non diventa una zavorra che all’occorrenza ti può essere fatta pesare. Perché Tonya scopre una cosa molto semplice : che non basta solo il talento e allenarsi duramente, ma anche avere un quadro “idilliaco” a fare da contorno, che a parità di esercizio, a fare la differenza è il carattere mite delle avversarie e non la sua posa ruspante, l’indole rassicurante delle colleghe e non la sua personalità temeraria. Detto altrimenti, Tonya scopre che sulla pista di pattinaggio, ad essere giudicati non sono solo i suoi esercizi frutto di tante ore di allenamento, ma anche la sua vita claudicante passata a dare e a ricevere cazzotti. E se attraverso i primi ha comunque avuto i suoi momenti di gloria meritandosi il titolo di campionessa nazionale, per mezzo della seconda gli si è sempre fatto pesare l’assenza di quei requisiti richiesti dalla federazione, che pretende di essere rappresentata dai suoi atleti in ben altro modo con tutt’altro stile.
Ecco, Tonya Harding soccombe sotto il peso delle sue origini povere e contadine, e se questo non la assolve rispetto alla possibilità che ha comunque avuto di potersi riscattare socialmente attraverso il suo talento, se questo non la giustifica rispetto ad una condotta sportiva sleale, ci aiuta a porla come paradigma possibile di un paese che tiene sempre abbastanza alto il livello della competizione “selvaggia”, che inculca a dovere il mito del diventare celebri ad ogni costo, dell’ essere sempre al centro dell’attenzione, del dare importanza al far parlare di se continuamente, quale che sia il modo in cui lo si fa. Un sistema paese che prima estromette Tonya Harding dal podio per una mera questione d’immagine, ma che poi ne sfrutta specularmente il carattere per lucrare fino in fondo sulla sua immagine di icona dell’antisportività. In tal senso, molto emblematiche sono le parole che Tonya pronuncia ad un certo punto del film : “Il pubblico vuole qualcuno da amare, ma anche da odiare” .
E lei ha accettato di buon grado questa tacita regola del gioco, anche di farsi odiare se questo ha potuto significare rimanere al centro dell’attenzione in quello spaccato di vita che si fa spettacolo imperituro. Finchè non si è ritrovata a diventare una “normale” donna e mamma americana.
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