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The Case for Christ

Regia di Jon Gunn vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su The Case for Christ

di alan smithee
4 stelle

CINEMA OLTRECONFINE

In pieni anni ’70 un valido giornalista di una testata di Chicago, di formazione atea ed epidermicamente scettico verso ogni forma di dogma o credenza mistica popolare, approfitta della subitanea ed imprevista, per lui addirittura sconvolgente conversione della giovane ed amata consorte - illuminata, quasi folgorata dalle parole di una donna di colore, dopo che questa è intervenuta tempestivamente a salvare la figlia da un sicuro soffocamento in un ristorante ove casualmente le due si trovavano a cenare con le rispettive famiglie – per rendersi portavoce ed autore di una potente e dettagliata inchiesta giornalistica inerente appunto il ruolo del Cristianesimo nella vita delle persone che se ne lasciano in qualche modo coinvolgere.

E mentre l’uomo assiste impotente, quasi scandalizzato, alla veloce “possessione” della bella ed un tempo razionale consorte nei confronti di quella fede che rimane per lui un condizionamento, ed un assoggettamento culturale che si poggia su suggestioni e timori nei riguardi di un futuro quanto mai incerto, nel contempo aumenterà la risolutezza da giornalista incisivo e sicuro di sé, nel mettere in discussione il dogma dei dogmi: la resurrezione di Gesù Cristo.

Fino a divenire egli stesso protagonista di una serie di eventi personali che lo turberanno a tal punto, da far cedere nell’uomo quella innata e solida propensione allo scetticismo più sfrontato e determinato.

Senza nulla togliere ad una certa dettagliata cura con cui il film si prodiga a mettere in luce e sviscerare principi basilari comunemente accettati dai credenti, e al contrario fonte delle principali scetticità della fazione agnostica, è pur vero che il film di Jon Gunn, autore di un paio di opere non proprio memorabili, scivola presto nello scolastico, soprattutto quando deve descrivere i dettagli di una conversione davvero troppo scandita, quasi telecomandata, che davvero riserva in sé stessa le caratteristiche di un plagio mentale preoccupante di fronte a chi non professa alcuna fede in alcunché di immateriale o non tangibile o spiegabile razionalmente.

Anche le dettagliate ricerche del giornalista, per quanto a volte pur interessanti, diventano spesso e a lungo andare piuttosto pedanti, ed il film, nonostante l’impegno degli attori (Mike Vogel in testa), e quello degli scenografi per le opportune ricostruzioni di un passato non troppo lontano, ma nemmeno invisibile agli occhi odierni, non va oltre un meritevole impegno di intenzioni, senza riservare particolari sorprese né dal punto di vista della vicenda, né tanto meno dal punto di vista della tecnica di regia.  

Regna in generale un senso di staticità che affligge i personaggi, principali e di contorno, in una sensazione puerile e fastidiosa di non volersi di staccare dalle più consuete situazioni collaudate tipiche, con buona probabilità, del bestseller da cui il film è tratto, costretto in quanto tale a rivolgersi alla massa indistinta, e proteso a tal fine a non scontentarla, anche con artifici ed espedienti di facile presa emotiva.

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