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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su La casa di Jack

di Antisistema
8 stelle

Arte pura o provocazioni fini a sè stesse? Il cinema di Lars von Trier ha da sempre ammiratori ed accaniti detrattori, giudicare il personaggio e di riflesso le sue opere risulta molto difficile, perchè i film del regista danese nascono solo ed esclusivamente dall'urgenza del proprio autore di voler comunicare un qualcosa, poi come tale contenuto venga recepito dal pubblico o scandalizzi le critiche dei festival polarizzandole, è un gioco delle parti che poco ci interessa e anche abbastanza noioso, visto che entrambi ci marciano ampiamente sopra, così come i festival internazionali ospitano le sue pellicole in concorso sapendo benissimo che il gran rumore farà molta pubblicità. 
La Casa di Jack (2018) non è sfuggito di certo a tale rito, anche perchè ad un'analisi meramente di superficie, i cinque incidenti narrati dal serial killer Jack (Matt Dillon), a cui si aggiunge l'epilogo finale, altro non rappresentano che un'autobiografia di Lars Von Trier che espone la propria visione di cinema fortemente provocatoria, anarchica, liberatoria e financo con una sua morale finale (strano a dirsi), identificandosi con il protagonista della sua opera, che nel raccontare tramite dei flashback 5 omicidi chiave, dei numerosi tra quelli da lui compiuti, ha dei discorsi confessori dal tono sarcastico quanto divertito, ma senza essere mai ironico e per questo inquietante nella sua esposizione, con un misterioso soggetto che il killer identifica in Virgilio (Bruno Ganz), famosissimo letterato dell'età augustea ed una delle tre guide del sommo poeta Dante Alighieri, nel suo viaggio attraverso l'inferno ed il purgatorio, al quale il regista sembra rifarsi esplicitamente arrivando a citare chiaramente un noto dipinto di Delacroix. 
Jack ha le fattezze di un uomo di mezza età e dall'aspetto imbolsito come lo è il suo interprete Matt Dillon, nel narrare i propri omicidi concepiti dall'uomo sempre più come espressione della sua creazione artistica, il killer arriva a distaccarsi sempre più maggiormente dal proprio disturbo ossessivo compulsivo (le regole del Dogma95 imposte da Lars Von Trier a metà anni 90' e poi da lui disattese), arrivando ad eseguire omicidi sempre più efferati e violenti, quanto più artistici poichè liberi da qualsiasi costrizione dogmatica e morale, dilettandosi nell'osservare i corpi umani in trasformazione all'interno della propria cella frigorifera, dalla chiara risonanza simbolica con quella del nono cerchio dantesco, dove il ghiaccio, il freddo ed il gelo generato dalle ali di lucifero rende il luogo il più inospitale di tutti. 

 

Uma Thurman, Matt Dillon

La casa di Jack (2018): Uma Thurman, Matt Dillon


Difficile stabilire dove finisce l'arguzia argomentativa di Lars von Trier e dove cominci la provocazione, perchè la Casa di Jack è un'opera metafilmica, dove l'opera e la carriera personale quanto cinematografica del proprio autore coincidono in tutt'uno, forse sarebbe cosa adeguata visionare il film dopo aver visto quasi tutti i lavori precedenti del regista, perchè nei numerosi inseriti di immagini artistiche, icone, dipinti, opere architettoniche e esecuzioni a pianoforte, s'intrecciano pure dei brevissimi frame tratti dai precedenti film del cineasta danese, che sarebbe utile conoscere, così come la sua personalità provocatoria, compreso anche il gossip scandalistico, perchè si, von Trier vi infila addirittura reminiscenze delle sue frasi deliranti sui nazisti che pronunciò nel 2011 a Cannes in occasione della presentazione del film Melanchonia, scadendo forse nell'autoindulgenza difensiva a cui goffamente contrappone la reprimenda di Virgilio su come la creazione artistica debba sottostare all'etica morale, mentre Jack/Lars sostiene tramite i suoi omicidi un'idea di arta libera da ogni restrizione imposta dall'uomo, con tanto di parallelismo abbastanza di cattivo gusto anche per un personaggio negativo come quello del protagonista, tra i suoi cadaveri ed campi di concentramento nazisti degli ebrei, in cui vediamo i nazisti compiacersi di un genocidio perfetto, perchè compiuto in modo scientifico, razionale e soprattutto senza empatia, proprio come Jack, la cui mancanza di sintonia con il prossimo, gli ha consentito di compiere decine e decine di omicidi senza provare alcun rimorso. Lars è questo, prendere o lasciare, se il mondo critico gli rimprovera degli eccessi, il regista danese se ne frega altamente andando per la propria strada, così abbondano le donne dall'intelligenza mediocre o gli omicidi efferati compiuti in molti modi, nei quali però non è il sangue a disturbare, ma l'atto in sè a lasciare turbato lo spettatore, complice anche lo stile asettico e cronachistico della regia di von Trier, il quale gode molto nel riprendere la sofferenza di una vittima strangolata o la freddezza di Jack nell'uccidere con il proprio fucile una famiglia (terrificante), appagando il proprio contrasto tra piacere e dolore brillantemente esplicato nell'aneddoto sul lampione, ma alla fine nella mezz'ora surreale finale, Jack come Trier sono costretti ad ammettere l'inferiorità della materia innanzi all'etica morale, chiudendo il film con un finale "troll", che lascia spiazzato probabilmente lo spettatore non avvezzo al cinema del regista danese, ma in realtà la logica conclusione per un regista da sempre discepolo di Carl Theodore Dreyer, anche se rivisita certi suoi topoi in una chiave surreale, grottesca e quasi da presa in giro, ben lontana dall'austerità che caratterizzavano le sue opere del suo connazionale. Un film non banale per niente, divisivo ovviamente e da rivedere più e più volte, magari dopo aver visionato come detto altri film precedenti del regista. 

 

Matt Dillon

La casa di Jack (2018): Matt Dillon

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