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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su La casa di Jack

di Texano98
8 stelle

 

Ecco l’uomo che parla di arte con gli occhi di un assassino. Ecco Lars Von Trier, che ama guai e sfide, questo è certo; agguantando Jack dalle profondità del proprio inconscio, il suo amore per l’arte si sprigiona libero da ogni catena, ringhiando allo spettatore, scardinando il linguaggio cinematografico, creando situazioni al di là delle convenzioni, oltre il “buon gusto”.
La casa di Jack è un film unico sotto diversi aspetti. Innanzitutto, Von Trier adopera una scelta radicale: l’assassino non ha la dignità dell’antieroe, è un individuo sgradevole e inviso allo spettatore; dietro le sue azioni non vi è nulla del mistero, della decadenza, del romanticismo irrazionale che un Fincher aveva ricamato intorno al proprio Zodiac. Il protagonista non si concede allo spettatore, non gli permette di ancorarsi al suo carattere, anche da bambino appare come una figura lontana dall’uomo (un nostro nemico, una minaccia), provocando disagio. Le mattanze a cui si presta sono registrate con l’occhio di un documentarista, raggelanti, poi in altri casi l’angoscia si fa vivida, insopportabile. Si pensi all’omicidio nell’appartamento di città, quando la vittima di Jack capisce che non c’è scampo: anche gridando dalla finestra nessuno verrà ad aiutarla. E’ completamente sola nel bel mezzo del mondo. Una sequenza dove Von Trier lascia da parte il gelo per imbastire una grande tensione hitchcockiana, il tutto ricorrendo solo a quattro mura e a due attori. Come scosso da convulsioni, poi, il film procede a suon di fermi immagine, grafici esplicativi, filmati di repertorio dalla diversa qualità e dalle diverse proporzioni. Jack è ormai senza freni e si apre completamente a Verge, iniziando con il processo di decomposizione dell’uva – “il muschio nobile” nominato in parallelo alle immagini dell’olocausto… – e arrivando a discutere dell’anima (paradiso) e del corpo (inferno), attribuendo a quest’ultimo la capacità di generare opere d’arte ed icone. La labile conclusione di Jack – non a caso viene citata anche l’opera di Albert Speer, ammirato da Von Trier – è che l’arte prevarica l’esistenza dell’uomo, cominciando davvero solo con la sua morte. Egli può certo vivere, per lo meno affinché si riproduca e nascano nuovi corpi, ma deve comprendere che è con la morte che diverrà arte, la più meravigliosa, quella che nasce con la fine di tutto. L’uomo ridotto a corpo, malleato dal tempo o da artigiani della materia (le vittime di Hitler o di Pol Pot, nella speculazione di Jack, dovrebbero essere felici di aver concorso a fare arte, perforati dalle mani di abili scultori!). Ovviamente, quell’iconoclasta di Von Trier, tutt’altro che un assassino (se non del buon costume), vuole farsi beffa del pubblico e indossa la maschera del provocatore, ma dopotutto non fa altro che affermare la propria filosofia, a metà strada fra nichilismo e superomismo. E’ la sua specialità, parlare di una cosa con i costumi di un’altra, usare il sangue per parlare dell’arte.
L’arte, meraviglioso strumento: con i suoi colori, l’artista porta a chiunque i propri saperi, rendendoli popolari. Certo, quanta fatica in meno avrebbe impiegato il regista danese scrivendo un libro, o magari chiacchierando davanti a una cinepresa, parlando della sua concezione di arte e di vita; ma Von Trier non ama le lezioni, è fondamentalmente un folle: egli fa di tutto per distillare il suo personalissimo cinema, fregandosene di piacere, talvolta voltandoci le spalle. Ed è per questo che il suo ultimo film si rivela un oggetto pulsante, da esplorare, anche nei suoi momenti meno riusciti, come nel finale dantesco, stroncato da una regia che gestisce in maniera legnosa il mondo della grafica digitale. E’ normale, in fin dei conti, e forse lui era il primo a saperlo: Von Trier proviene dal Dogma 95, non è un Peter Jackson o un Bryan Singer.
Guardandolo da lontano, dopo aver ripreso fiato ma senza riuscire a cancellare l’inquietudine che permane sotto la pelle, La casa di Jack si rivela un film denso e profondo: il continuo rinnovarsi dei nuclei narrativi (sei capitoli e alcuni intermezzi) sbriciola le due ore e mezza di durata, che travolgono lo spettatore, senza compiacerlo e anzi cercando lo scontro diretto, risparmiando solo i più attenti. Ecco dunque serviti sul piatto dei momenti di grande cinema, di sconfinata follia; eccoli serviti per gli occhi di chi ancora vuole guardare.

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