Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Il boicottaggio operato nei confronti dell’ultimo film di Lars von Trier mi fa inorridire. Ho sempre pensato che un artista, qualunque sia la sua arte, abbia il pieno diritto di esprimere il suo estro, e credo che non possa mai esistere una giustificazione valida affinché qualcuno finisca per non mostrare quell’opera o peggio storpiarla pur di renderla “presentabile”. L’unicità di ogni opera d’arte dipende proprio da tutto ciò che la differenzia dalla normalità, accessibile e comprensibile alla massa.
Avendo deciso di distribuire la pellicola in una doppia versione censurata, in quanto anche il film non vietano ai minori, a quanto pare, se presentato nella sua completezza, finiva per urtare la sensibilità di coloro che decidevano di recarsi di propria volontà in sala, è stato difficilissimo avere la possibilità di vedere l’opera di Lars von Trier in quanto, almeno nella zona in cui risiedo, è stata proiettata in una monosala di città, in orari diversi da quelli pattuiti. Mi viene da pensare a quanto la difficoltà di accedere a qualcosa finisca per renderla affascinante.
Riuscita ad accomodarmi e prontissima per la visione, con una certa titubanza che finisce per condizionare la visione di un film quando creo intorno ad esso alte aspettative, sono rimasta, con mio stupore ancora oggi non placato, enormemente sorpresa; dovendo, ancora una volta, constatare con sommo piacere, la genialità di questo regista.
La casa di Jack presenta una sceneggiatura complessa e dai numerosi riferimenti storici, non necessariamente conosciuti dallo spettatore, nonostante ciò la curiosità verso ciò non muta, anzi accresce di scena in scena. Una scrittura consecutiva, quasi senza pausa alcuna; le sequenze si susseguono in modo spasmodico e compongono una visione impegnativa ma affascinante a tal punto dal non voler distogliere lo sguardo.
La rappresentazione della cattiveria umana, in ogni sua forma, dalla generazione del pensiero alla messa in atto della violenza stessa. La capacità di mostrarla in modo così naturale, finisce per causare nello spettatore la fascinazione della follia fino a renderla normalità.
Il merito è senza dubbio di Matt Dillon all’apice della sua forma. Il suo sguardo assente, il viso sofferente, la volontà ceca di non voler reprimere l’impulso della pazzia che lo domina, il mostrarci come si soccombe a qualcosa che nemmeno si immaginava possibile, la fedeltà nell’esecuzione degli “incidenti”, compresa la maniacalità che lo contraddistingue, insieme alla vanità, è qualcosa di così perfetto che quasi l’occhio non riesce a percepire in pieno.
La discesa agli inferi poi, è il raggiungimento dell’apoteosi. La rappresentazione dell’inferno, a partire da Bruno Ganz che interpreta un Virgilio cupo e risoluto (il piacere di vederlo ancora sullo schermo è inspiegabile a parole), finendo con il vortice di fuoco, lava e pietre che ci viene mostrato nelle ultime sequenze, avrebbe soddisfatto anche Dante. Laddove tutto sembra compiersi prima di averci fatto intendere la totalità delle motivazioni che si celano dietro gesti così macabri e crudeli, senza prendersi la briga di analizzare la psicologia del serial killer, tutto si chiude e la luce bianca sembra solo illuminare una mia convinzione: come se tutto, a partire dal titolo, non fosse altro che un enorme McGuffin necessario per discendere nella cattiveria assoluta del genere umano; lo conferma ogni racconto, ogni immagine, ogni parola, ogni gesto ed ogni supposizione che ne deriva.
Touchè a Lars a von Trier che ancora una volta ha permesso alla mia fame cinefila di ritenersi sazia per qualche tempo, seppur sempre troppo breve.
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