Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Una riflessione sul cinema, ne scuote molti canoni sovvertendo le parti, il thriller si svuota della tensione che terrorizza lo spettatore e diventa gioco intellettuale
Che il male sia tra noi e circoli libero e perfino indisturbato lo sapevamo, le vie della cronaca sono infinite e se non bastasse la cronaca ci sono i libri di storia, i memoriali, i racconti, le confessioni, di tutto.
Ma la Divina Commedia l’ha scritta solo lui, il sommo poeta, e il male divenne poesia.
Già tra i Greci, in cinque atti più epilogo, i tragici ne avevano dato completa informazione, dietro il fondale accadeva di tutto, poi sulla scena si accedeva alla catarsi purificatrice (del pubblico, ovviamente, i peccatori era giusto che espiassero).
Dunque Lars von Trier non provoca proprio nessuno, e quel centinaio di fuoriusciti dalla sala a Cannes 2018 forse avevano caldo, sete, fame, o chissà.
Dalle nostre sale non sta scappando nessuno, anzi.
Meriti del film
Ironia grottesca, innanzitutto, rara da realizzare in modi così perfetti, eleganti, da gran maestro del mestiere, capace di mettere luridi bassifondi metropolitani accanto alle vette dell’arte pittorica, scultorea e architettonica.
Il sangue scorre e Jack e Verge (Virgilio post litteram) si mettono in posa per quadri ricordo.
Altro credito, distacco dalla platea, nessun ammiccamento, a von Trier non interessa la nostra empatia, lui va dritto per la sua strada e noi liberi di decidere se seguirlo.
Un po’ come Bruno Ganz, per tre quarti del film voice over, poi, nell’epilogo, lui in persona, nella parte di Verge, un Virgilio come l’abbiamo sempre immaginato, noi vecchi lettori di Dante, sereno e distaccato, un tantino in posa da vecchio saggio e mai troppo partecipe alle vicissitudini non facili dell’illustre viaggiatore.
Ultima apparizione di Ganz, pochi mesi prima della sua morte, e sempre magnifico, pacato, gran maestro di vita, ci addita la strada e ci lascia la scelta su come percorrerla.
Infatti Jack sfiderà ancora una volta le fiamme dell’Inferno, la scelta è sua.
Per chi non ha ancora visto il film un breve riassunto:
Jack, nome modellato sul celebre Squartatore, qui è anche un banalissimo cric rotto (sì, quello che tutti abbiamo in macchina, in inglese jack). Entra subito in scena insieme all’altro Jack, imminente serial killer, manca solo l’occasione e la bionda in panne sulla strada innevata (Uma Thurman) è la molla.
E’ il primo dei cinque “INCIDENTI”.
Così li chiama il serial killer Jack/Matt Dillon, attore poliedrico, con barba o senza, un soggetto ossessivo/compulsivo, un narcisista con propensioni artistoidi e filosofiche, un pezzo d’uomo che, esattamente a metà del cammin di sua vita, e nel corso di dodici anni nello Stato di Washington, è andato su e giù con il furgoncino rosso per strade e paesi dell’hinterland ammazzando malcapitati trovati per caso o messi sulla sua strada da circostanze di vita.
Nella prima sequenza, macro, circa mezz’ora, von Trier dispone tutti gli elementi:
il protagonista, l’uomo comune potenziale omicida;
la vittima, donna, preferibilmente, stupida o rompiscatole, comunque una che tutti difendono, come il politically correct vuole (“possibile che sia sempre il maschio il colpevole?” è la battuta più provocatoria del film, più spietata degli efferati omicidi, ma von Trier sa sempre dove e come colpire il convenzionalismo imperante);
il furgoncino rosso, straordinariamente visibile, ma nessuno che lo insegua, addirittura Jack si trascina appresso per chilometri un cadavere sanguinante legato ad una fune al paraurti e che succede? La Provvidenza manda giù una gran pioggia a lavare ogni traccia.
“Ci ho visto un segnale”, fa lui, voice over, e possiamo solo dargli ragione.
Dopo i primi INCIDENTI il raggio si allarga e le vittime si diversificano, i metodi di eliminazione sono mutuati da vicende storiche reali, vedi lager nazisti, dunque niente di nuovo.
Alla fine uomini, donne e bambini non faranno più differenza alcuna, quando il male ha impregnato di sé ogni cosa sterminare uomini, donne o bambini che differenza fa?
E affacciarsi urlando chiedendo aiuto crediamo che faccia accorrere tutto il vicinato?
Ingenui e illusi!
E che la polizia sia disposta a credere che incombe una grave minaccia? Macchè, quel che conta è evitare schiamazzi notturni e mostrare un documento.
Jack uccide e congela cadaveri, li dispone in posa, li fotografa e ne fa oggetti d’arte.
La violenza messa in scena nei cinque incidenti, tra cui l’eliminazione della propria famiglia durante un pic-nic agreste, è così assolutamente esplicita e svuotata di tensione da non essere affatto realistica e disturbante.
L’allegoria è scoperta, chiudere gli occhi sarebbe come chiudere la pagina non sopportando “il loco d’ogne luce muto” che Dante percorre con l’alta guida
Si tratta di viaggio, anche stavolta, che però finisce male per chi lo compie, ma ha un valore propedeutico per chi si lascia ingannare dal fascino dell’affabulazione (e infatti cosa diceva Gorgia il siciliano? “La tragedia è un inganno per il quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare”).
E’ una riflessione sul cinema, ne scuote molti canoni sovvertendo le parti, il thriller si svuota della tensione che terrorizza lo spettatore e diventa gioco intellettuale, von Trier cita film e opere d’arte, Picasso è il primo, la faccia della donna uccisa col cric (Uma Thurman) è un quadro cubista in piena regola.
Jack costruisce la sua casa, ma non quella normale in riva al lago che da architetto ha concepito, da serial killer fa una casa di morti, con cadaveri disposti in una macabra installazione che ricorda tante performances d’arte contemporanea non molto dissimili e, a volte, anche più brutali.
La tua casa è piccola ma carina Jack... fa Virgilio a Jack.
Compiuta l’impresa non può che esserci la voragine infernale, un momento di autentico horror gotico per uso del colore, scenografia, dialogo fra Jack in mantello rosso dantesco e Verge, dimesso, in nero, come rimpicciolito dagli anni ma sempre grondante carisma.
E’ questo il momento in cui la tensione si gonfia, la scalata di Jack al Paradiso lungo quella roccia scabra e ingannevole non può che finir male e il torrente di lava lo aspetta.
Segue immediato raggelamento di tutto in una palude ghiacciata, tipo Cocito, il ghiaccio avvolge tutto nel suo nulla.
Non resta che aspettare i titoli di coda, e dopo Fame di David Bowie lanciato a tutto volume nei momenti topici il finale è a gran sorpresa e in puro stile vontrieriano, ma è una sorpresa e tale deve restare.
www.paoladigiuseppe.it
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