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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su La casa di Jack

di mck
8 stelle

...è, soprattutto, un (bel) film stanco.

Chi, e cosa, sono gli altri, per me: Funny Games.
Gli Elementi del Crimine e la Dinamica delle Ombre: Natura Morta e Tableau Vivant.

 

 

Jack è rotto, è un socio/psico(a)patico incapace di relazionarsi con la funzione che svolge in seno alla società, e non si può aggiustare riaccomodandolo ad una corretta, non precedente e giammai raggiunta condizione “umana”, così come il jack (cric, martinetto) a mezzo pantografo, l'attrezzo in metaforica personificazione con cui compie il primo “incidente” perpetrandolo in delitto... 

 

 

- Ma poi hai capito, o, anche meglio, hai accettato, la connessione con la tua vera personalità? Che tu stesso, proprio tu, eri uno psicopatico?
- Beh, non sono uno stupido.
- È piuttosto inusuale. Lo psicopatico non accetta, mai, la sua diagnosi.

 

 

...non è riparabile ripristinandone le funzioni originarie con una saldatura che mostrerà sempre un punto di rottura irrecuperabilmente soggetto alla minima sollecitazione di una inevitabile tensione di snervamento: quando il lenitivo piacere scema e il bisogno di appagare il desiderio si manifesta irrimandabile (“La morte [degli altri; NdR] è l'emozione più grande”: banale e idiota epifanica rivelazione esperita da John Wayne Gacy, anche se le caratteristiche e le modalità, il contesto e l'ambientazione ricordano più Jeffrey Dahmer e senz'altro Ted Bundy), ecco che. 

 

 

Gl'ingegneri leggono la musica, gli architetti la suonano (e i geometri la fischiettano e accordano gli strumenti). 

E Jack, col tempo, per necessità, impara a fingere d'essere umano: mimesi, senza empatia.

 

 

E Matt Dillon (eccellentemente sfruttato seguendo la china che cerca nell'innocuo il demone, o per lo meno il “disturbante”, una falsariga che di recente è stata percorsa, ad esempio, da Steve Carrel in “FoxCatcher” e Jim Carrey in “Kidding”), traghettato al centro della Terra attraversando le carsiche fogne statunitensi d'America da un Virgilio osservatore che ha le fattezze ultime dell'angelo berlinese / amico americano Bruno Ganz a cui una tantum e forse più sfuggono termini in volgare italico idioma, coerentemente di conseguenza, in contemporanea impara ad essere Jack mentre il film viene girato in sequenza cronologica, e della mattanza fa (s)concerto: Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan (e per il suo "episodio/incidente" come non ripensare a "il Decalogo - 5. Non Uccidere"), Sofie...

 

 

...Gråbøl e i due figli, Riley...

 

 

...Keough, David Bailie e Osy Ikhile, mentre Jeremy Davies si salva: ah!, la burocrazia U.S.A.!, quella in cui puoi comprarti così tante cartucce da caccia da sterminare per la seconda volta tutti i bisonti da oceano a oceano, ma come e quanto ti rende difficile procurarti un solo proiettile Full Metal Jacket! 

 

 

Fotografia (in/out of Dogma 95: dalla camera a mano che abbandona/cerca/perde/trova il punto di fuoco alle geometriche carrellate laterali passando per plongées e messe in abisso) di Manuel Alberto Claro.
Montaggio [rallenty e accelerazioni, dissolvenze tra il carnaio del macello e la destrutturazione del cubismo espressionista (Otto Dix e George Grosz), con echi corporali di Francis Bacon e Lucian Freud] di Molly Malene Stensgaard (e Jacob Secher Schulsinger).
Musiche originali di Victor Reyes e non originali di Bach, Vivaldi, Wagner; e Glenn Gould; e Louis Armstrong, Bruce Pointdexter, David Bowie.
E, per altri versi (pennebakeriani), Bob Dylan.  

 

 

PdV: "You read Blake like the Devil reads the Bible."

Effetti speciali: Peter Hjorth.
Dipinti di Botticelli, Rembrandt, Courbet, Gauguin, Munch…   

 

 

Happening e performance dall'Azionismo Viennese (Günter Brus, Otto Mühl, Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler).
Installazioni di Bill Viola.
Diorami da Delacroix.  

 

 

Ambientazione: Dante Alighieri.
Versi (e un albero, una quercia, nel "Bosco di Faggi" - BuchenWald -, tabularasato a Campo di Concentramento e Sterminio, sulla collina dell'EttersBerg, nei pressi di Weimar, Turingia, Germania Orientale) di Goethe.
Trait d'union: William Blake.
E il niente di nulla sopravvissuto dell'opera omnia di Albert Speer e la picchiata valchiriesca degli Stuka.
Abitazione: Lars von Trier e Bjarke Ingels.  

 

 

Trier gioca scopertamente [rasentando il disinnesco del proprio autosabotaggio: la stupidità delle vittime femminili – sino a giungere al (sopran)nomen omen “Simple” – la cui storia Jack sceglie di raccontare, tra le tante altre, al suo Verge] con lo spettatore [l'ingegner Jack – che, epitome dei gaddiani “anni atroci dell’ingegneria”, alla fine riesce a erigerlo, da buon geometra, il suo egonschielesco focolare casalingo (non in mattoni, non in cemento armato, non in legno), in una cella frigorifera, accatastando caterve di autosostentantisi carcami poggianti le loro gravitiche morte pesantezze attraverso forze e tensioni erette con gotici archi a sesto acuto), per poi stemperarsi in una magmatica caldera vulcanica tra Dante, Verne e Tolkien – sta all'architettura così come il narratore Trier sta al cinema, e Lars sta a Jack tanto quanto Fisher ne “l'Elemento del Crimine” - inciso: l'esordio del regista danese fa parte dei film non autocitati (Epidemic, Idiotern, Dancer in the Dark, le Cinque Variazioni, Manderlay, il Grande Capo) a epitaffio, mentre alcuni frammenti di Medea, Europa, Riget, Breaking the Waves, Dogville, Antichrist, Melancholia, Nymph()maniac vanno a comporre il C.V. - “diventa” egli stesso un mostro: non ci si identifica col colpevole per poterlo scovare, ma si scopre di essere il colpevole per poter essere sé stessi] sino alla fine: speriamo sopravvivano gli umani alla stanga! Speriamo (non) sopravviva l'alpinista speleologo subacqueo!  

 

 

The House that Jack Built”, che riprende alcune tematiche di forma/stile (Dogville/Manderlay, in cui le orizzontali imago bidimensionali degli edifici tracciate a terra proiettano la loro idea/essenza come un'ombra di possibilità verticale) e sostanza/contenuto (Antichrist/Melancholia: dopo essere sopravvissuti alla propria fine altro non resta che perpetuarla negli altri) di alcuni film precedenti [e che primariamente si mette in dialogo - nella figura del protagonista - con "Breaking the Waves" (il finale ur-fantasy), "Dancer in the Dark" e "Nymph()maniac", ed instaura una dialettica contrapposta con, ancora, "Melancholia": il cui finale (fanta)scientifico è tanto logicamente preannunciato quanto razionalmente irrimediabile], è - scritto dallo stesso Trier partendo da un soggetto suo e di Jenle Hallund -, soprattutto, un (bel) film stanco.

Ma è anche una Commedia (se pur "infernale").     

Il cui finale catabasico si svolge, esattamente, qui, nel baricentro (a una pena mediocre, un paio di gironi più su, per una vita mediocre lui preferisce tentar l'abisso), dove un tempo a gettar la propria prospettiva v'era un ponte ancora in piedi: 
...quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto 
al qual si traggon d’ogne parte i pesi. 
Dante Alighieri – La Commedia – Inferno – Canto XXXIV – 110-111

 

 

Non so se ultimo, di certo ultimato.
In attesa che la dinamica delle ombre riporti Trier alla creazione. 

 

 

E allora (geometri, ingegneri, architetti / chirurghi, ricercatori, scienziati) rifugiamoci in Thomas Bernhard, nel suo “Gelo” al calor bianco, incandescente specchio dicotomico a cotanta disfatta austro-danese: “La pratica d'ospedale non sta solo nell'assistere a complicate operazioni intestinali, nell'incidere peritonei, nel pinzare lobi polmonari, nell'amputar piedi, non sta davvero soltanto nel chiuder gli occhi ai morti o nel tirar fuori bambini per farli venire al mondo. La pratica d'ospedale non è soltanto questo: buttare con noncuranza nel secchio smaltato gambe e braccia intere o tagliate a metà. Non sta nel continuare a correr dietro come un cretino al primario e all'assistente e all'assistente dell'assistente, far parte del codazzo durante le visite. Né può consistere solo nel nascondere la verità ai pazienti e nemmeno nel dire: «Il pus naturalmente si scioglierà nel sangue e Lei sarà completamente guarito». O in centinaia d'altre simili fandonie. Nel dire: «Andrà tutto bene!» - quando non c'è più nulla che possa andar bene. La pratica d'ospedale non serve soltanto a imparare a incidere e a ricucire, a far fasciature e a tener duro. La pratica d'ospedale deve anche fare i conti con realtà e possibilità extracorporee. Il compito che mi è stato affidato di osservare il pittore Strauch mi costringe a occuparmi di questo tipo di realtà e di possibilità. A esplorare qualcosa d'inesplorabile. A scoprirlo sino a un certo sorprendente grado di possibilità. Come si scopre un complotto. E può darsi che l'extracorporeo - e con questo non intendo l'anima - che cioè quel che è extracorporeo senza essere l'anima della quale non so proprio se esista, anche se mi aspetto che esista, può darsi che a questa ipotesi millenaria corrisponda una millenaria verità; può benissimo darsi che l'extracorporeo, vale a dire quel che è senza cellule, sia proprio ciò da cui trae la sua esistenza il tutto e non viceversa, e che non sia semplicemente l'uno conseguenza dell'altro.”

* * * * (¼) - 8 (½)     

 

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Addenda/Antidoto: ninfomaniaca melancolia della Vita (Breaking, Dancer, Becoming).

 

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