Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Negli anni '70 Jack (Dillon), un ingegnere solitario che gira a bordo di un furgone rosso fuoco e ha un disturbo ossessivo-compulsivo, si trasforma in un killer dal giorno in cui carica sul suo van una donna in panne che blatera senza sosta (Thurman), pretendendo che l'uomo stia ai suoi ordini. Un colpo di crick in piena faccia e via, chiusa nella enorme cella frigorifera di una strada senza mezzo nome e perciò difficilmente rintracciabile, dove andrà a fare compagnia a montagne di pizze surgelate. Da quel giorno, per 12 anni, Jack continua a colpire. Quasi sempre donne, che puntualmente mutila e mette insieme alle altre nella stessa cella frigorifera, non prima di aver scattato loro delle fotografie per i suoi piaceri intimi. A una sorta di confessore che non si fatica a identificare con il Virgilio dantesco che lo accompagna nella sua personalissima discesa agli inferi, impersonato dal grande Bruno Ganz (qui alla sua ultima apparizione), Jack racconta 5 dei tanti omicidi, che suggellano altrettanti capitoli, uno più efferato e raccapricciante dell'altro.
Con la sua voglia di scioccare e dare scandalo, Von Trier non si fa scrupolo di assestare colpo bassissimi allo stomaco dello spettatore, costretto per due ore e venti a uno splatter iperrealista. Ma l'ego del regista danese non si ferma all'operazione-scandalo. Anziché optare per un film di genere che, pur nel suo parossismo, ha la capacità di tenere incollato lo spettatore alla poltrona per un paio d'ore (la catabasi finale è un capitolo a sé stante, scollato dal resto del film), Von Trier ricama l'opera con riferimenti filosofici che spaziano dalle variazioni Goldberg eseguite da Glen Gould alla tecnica di costruzione delle cattedrali a sesto acuto, passando per i lager, l'arte pittorica contemporanea, gli Stukas tedeschi e le tecniche di putrefazione dell'uva per ottenere vino: tutti addendi di un unico teorema che dovrebbe dare come risultato l'idea dell'omicidio come arte. Un guazzabuglio di idee accatastate con iattanza, senza una giustificazione argomentativa plausibile, che fanno il paio con un epilogo che avanza di gran lunga il limite del ridicolo. Ed è un peccato, perché Von Trier è talmente sopraffatto dalla volontà di stupire (anche filmicamente, sebbene gran parte del film sia girato con la macchina a spalla, con una sola canzone di Bowie - Fame - e ripetute citazioni dal Don't Look Back di Pannebaker), da stemperare la potenza narrativa della psicopatologia del protagonista, un Matt Dillon di sconcertante bravura e dalle venature ironiche. Rimane l'impressione che il film di Von Trier sia fragile e velleitario come la casa che Jack si ostina a voler costruire in una contrapposizione perenne tra ingegneria e architettura, per poi generare il mostro che ci viene consegnato in sottofinale.
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