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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su La casa di Jack

di mm40
6 stelle

Jack è un ingegnere, solitario e compulsivo nell’ordine. Un giorno uccide, quasi per caso, un’autostoppista petulante e da quel momento decide di dedicarsi al serial killing, con ottimi risultati. Nel folle dialogo con Verge, la sua virgiliana coscienza, Jack illustra i metodi più proficui e più azzardati per praticare il suo nuovo hobby.

Troppo. The house that Jack built (titolo originale, nettamente preferibile a quell’insulso La casa di Jack scagliato sul mercato italiano) è troppo di tutto: è la voglia di rivincita a guidare comprensibilmente Lars von Trier, a cinque anni dal parziale fiasco di Nymphomaniac, e forse un filo di moderazione non avrebbe guastato nella stesura e nella messa in scena di quest’opera. Eccessivo il regista danese lo è sempre stato; provocatorio, sarcastico, caustico pure; in questo caso però gli eccessi sono sia visivi che contenutistici, al punto da far sembrare il lavoro in certi punti uno dei più fracassoni e sguaiati filmacci giapponesi per amanti dello splatter, o ancora peggio una pellicola priva di argomenti, montata ad arte solo per disturbare lo spettatore. Certo che non è così: The house that Jack built è uno spaccato sulla psicologia della banalità del male – e indubbiamente tirare in ballo la Arendt non è fuori luogo per un regista che da sempre ama inserire nazisti, lager e olocausto nei suoi argomenti, sebbene non sempre sia stato capace di dimostrare in maniera inequivocabile la propria presa di distanza critica da tutto ciò. Come nel Regno (1994), d’altronde, von Trier qui ci ricorda l’ineluttabile compresenza di Bene e Male nelle nostre vite, facendo il punto con particolare attenzione sul secondo e solleticando gli istinti mortiferi del pubblico, cercando di farlo simpatizzare per un crudele e gelido (quanto, a tutte le apparenze, normale) serial killer. E ci riesce, perché fin da subito il personaggio di Matt Dillon, seriamente provato da una querula Uma Thurman sopra le righe, risulta simpatico e vincente, tanto da portarci a fare spudoratamente il tifo per lui anche quando successivamente lo vediamo sbrigare ulteriori crimini dei suoi. Quel che però davvero non va nella sceneggiatura firmata dallo stesso cineasta scandinavo è il personaggio destinato a Bruno Ganz: per tre quarti del film relegato a voce off dal tono indisponente, saccente, che va a introdurre lunghe parentesi, spesso costituite da montaggi di fotografie, che spezzano il ritmo narrativo e francamente lasciano perplessità sul filosofeggiare che recano con loro; e soprattutto, nella parte finale del film, chiamato inopinatamente a vestire i panni di un novello Virgilio che c’entra poco o niente con la trama e genera ulteriore confusione in una storia già di suo piuttosto cervellotica. Inutile aggiungere che il parallelo fra Jack/Dillon e Dante (suggerito arbitrariamente da un accappatoio rosso!) è quanto di meno plausibile; il finale, poi, sembra addirittura buttato via. Peccato perché The house that Jack built dice anche cose interessanti, tante: forse, semplicemente, troppe. 6/10.

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