Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Von Trier, con evidente intento provocatorio, scrive e dirige uno dei più insostenibili film sui serial killer. Ammantato da una antitetica vena ironica, The house that Jack building porta sullo schermo il peggior individuo (cinematograficamente parlando) mai visto. Finale allucinante, che allenta il livello di insopportabile cinismo. Singolare.
Stato di Washington, Anni '70. Un serial killer compie decine di delitti, conservando in una enorme cella frigorifera piena di pizze (!!!) i corpi delle vittime. Nel totale disprezzo altrui, Jack (Matt Dillon) scatta molteplici foto mettendo in posa sardonica i corpi massacrati per poi inviare alle forze di polizia alcuni esemplari, autografati con il nick di "Mister Raffinatezza". Ragazze, vedove, bambini, uomini di colore: non esistono limiti (né sul target, né per metodo) agli obiettivi di morte perseguiti e attuati da Jack. Distratto, un po' svanito e considerato più che innocuo nella vita quotidiana, il killer è inserito nella società come un insicuro e incerto ingegnere, da anni alle prese con la costruzione di una casa che non riesce a completare, demolendola ciclicamente per ricominciare a ricostruirla da capo. Della lunga "carriera" durata dodici anni, Jack racconta -a caso- cinque "incidenti" a Verge (Bruno Ganz) guida spirituale che lo conduce, facendogli strada, nei più profondi gironi... dell'Inferno.
"Un cazzo di nevrotico, martoriato da compulsioni ossessive e con un sogno, patetico, di qualcosa di più grande." (Verge descrive la psicologia del compagno di viaggio)
Trier scrive e dirige un nerissimo ritratto di serial killer, inizialmente concepito come un serial televisivo ma poi condensato al (lungo)metraggio di un film di oltre 150 minuti. Lo fa dopo essersi ampiamente documentato sulle azioni criminali di diversi assassini seriali realmente esistiti. Percorso da un vena di macabra ironia -che finisce però per amplificare l'effetto disturbante provocato dalle violentissime azioni di Jack- The house that Jack build nel finale tenta di sterzare verso una direzione più irrazionale, mettendo in scena il surreale tragitto lungo i cunicoli sotterranei che conducono -dietro guida del novello Virgilio (Verge appunto)- verso danteschi gironi infernali. Inaspettatamente crudele, Matt Dillon presta il suo allucinato volto al più cinico, sadico e insensibile serial killer mai apparso in precedenza sugli schermi. Un predatore talmente (dis)umano da arrivare a scimmiottare -divertito- i volti in agonia dei cadaveri appositamente (e grottescamente) messi in posa e fotografati. Privo di pietas e men che meno toccato da cum patior, arriva a cacciare -con fucile- due bambini, uccidendoli di fronte alla madre sconvolta.
I delitti vengono messi in scena da Trier in maniera ultra realistica, facendo -come mai prima d'ora- accapponare la pelle per l'insistito accanimento sui corpi. Momenti, per i più sensibili spettatori, in grado di far quasi perdere i sensi: si pensi alla donna (vedova da sei mesi!) mal strangolata, poi trafitta al cuore, quindi legata al paraurti del camioncino e "consumata" sull'asfalto. Tra alto (nel film compaiono opere d'arte significative, e il percorso verso gli inferi di Jack rimanda alla Divina Commedia) e basso (sequenze di Hitler e filmati dei corpi martoriati delle vittime dei campi di concentramento; l'elogio del sibilante aereo da guerra tedesco Junkers Ju 87, detto anche Stuka), Trier dà nuovamente credito a chi, già sconvolto per certe affermazioni sul nazismo che nel 2011 lo hanno tenuto lontano da Cannes, intravede nella sua "poetica" al limite del blasfemo una poco chiara tendenza nichilista e distruttiva.
Ospite fuori concorso al celebre Festival francese del 2018, The house that Jack building ha letteralmente diviso il pubblico tra chi, indignato e urlante, ha lasciato protestando la sala e chi, invece, lo ha applaudito con fragore. Sconsigliandone la visione ai più disinteressati verso il genere horror, va riconosciuto a Trier di avere avuto una buona dose di coraggio, di non essersi fermato di fronte al più convenzionale e tranquillizzante modo di sceneggiare e girare un film. Film che, piaccia o meno, non può certo lasciare indifferenti. Film che, a Cannes, ha sicuramente portato una ventata d'aria fresca. Film che, sempre più raramente succede, una volta visto mai più è possibile dimenticare.
"La collezione di corpi era per lo più congelata. Subito dopo la morte comunque una manciata di loro, per caso, aveva raggiunto, almeno, un certo grado di putrefazione prima che riuscissi a metterli nel ghiaccio. Puoi dire se la putrefazione è un bene o un male? La maggior parte della gente direbbe che è la degradazione naturale che, alla fine, è la reazione della materia alla base della vita sulla terra. Perciò, non è particolarmente né un bene, né un male." (Jack)
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