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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su La casa di Jack

di alan smithee
8 stelle

CINEMA OLTRECONFINE
Jack è un solitario taciturno, sin goffo ingeniere che vive imprigionato dentro le proprie psicosi ed i propri complessi irrisolti: vorrebbe aver studiato da architetto, più che da ingeniere ("l'architetto compone la musica, l'ingeniere la suona solamente); vorrebbe saper stare al mondo, condividere gioie e spensieratezze con qualcuno da amare come chiunque alla fine riesce a trovare, ma al contrario lui non prova sentimenti del genere, e si ritrova sempre solo, intelligentissimo, a progettare prima su un plastico, poi in loco, la sua nuova casa in un ameno terreno ereditato dalla famiglia, senza tuttavia trovare mai una soluzione ai suoi attanaglianti dubbi esistenziali. 
Nell'America già distratta e insensibile dei primi anni '70, Jack diviene serial killer non proprio per vocazione deliberata, quanto a causa piuttosto dell'insistenza sfacciata di quella bella donna (Uma Thurman) che diverrà la sua prima vittima.

Da quell' episodio, gestito con la rozza ingenuità del principiante baciato da una sfortuna sin sfacciata, Jack inizierà a maturare un interesse sempre più insistente e morboso che lo renderà serial killer indisturbato e perennemente a piede libero, nemmeno ricercato a causa del privilegio di poter gestire l'occultamento dei cadaveri in una cella frigorifera di proprietà. Affinando col tempo la tecnica sino a sgiirare la perfezione, poi vostretto a dover seminare indizi affinché qualvuno si degni di accorgersi del proprio meticoloso lavoro, in modo da poterne indirettamente valutare la perfezione tecnica.
E questa sua pratica efferata dell'omicidio fine a se stesso, ben più che la costruzione della casa perfetta ove trascorrere il resto della propria esistenza, diverrà la via per tendere alla perfezione, rendendo questo suo tremendo impulso-passatempo, come un percorso che tende all'arte, e a produrre l'opera perfetta.

Jack racconta le sue terribili imprese ad una sorta di psicologo-confidente, che ascolta imperturbabile, a volte fornisce qualche giudizio-considerazione sin scontata, a volte si permette pure qualche considerazione di valore morale.
Ritorna Lars von Trier, indiscusso, analitico, freddo ed implacabile genio del male, acuto analizzatore degli impulsi incontrollati di una specie inquietante come quella umana; tornato in Croisette a Cennes 2018, dopo il bando ricevuto ormai anni orsono per quella sua infelice uscita sul nazismo; tornato cosciente di provocare il pubblico e di farsi odiare da molti ("se mi accorgessi di piacere a tutti, sarei finito); e tornato con un saggio acuto, perfetto, cinico e matematico, un trattato inflessibile e sfrontato su quella che è la pulsione forse più terrificante di cui si può far carico un essere umano: l'uccidere per il gusto di farlo, per misurarsi con una pratica che richiede organizzazione e gestione dei dettagli; divenendo così bravo da restare invisibile anche dopo 60 omicidi seriali, e per questo desideroso di fornire elementi che conducano le autorità almeno a valutarne l'esistenza, e a contemplarne la sempre più perfetta esecuzione.

L'analisi che von Trier fa del suo uomo è lucida, perfetta, impeccabile: la spiegazione delle altalenanti pulsioni che guidano l'uomo tra un omicidio e il successivo, analizzata usufruendo di una animazione che riflette sullo stato cangiante dell'ombra di un uomo posizionato a metà strada tra due lampioni, diviene esemplare, perfetta, indiscutibile. Oltre che cinematograficamente molto suggestiva, come perfetto risulta lo stile quasi serafico e dettagliato di una narrazione impeccabile, gestita per capitoli.

Il film, lungo oltre due ore e mezza, è infatti
diviso in episodi che ci narrano senza remore, né omissioni di sorta, cinque esemplari di omicidio, dai primi goffi, clamorosi, sin macabramente comici... se vogliamo, e ci presentano il regista danese in piena forma, efferato più che morboso, scientifico, più che compiaciuto.
Il film disturba, senza ombra di dubbio (nel primo giorno di proiezione in Francia, a Nizza, allo spettacolo serale 3 persone su una trentina non hanno saputo reggere ai dettagli scanditi di un massacro senza omissioni ai danni di donne e bambini, e hanno lasciato la sala anzitempo; al Festival di Cannes è andata anche peggio, alimentando l'orgoglio mai nascosto del regista, che ha ammesso che sarebbe stato deluso di ricevere un riscontro di sole banali lodi senza reazione); può apparire provocatore, ma in fondo non lo è affatto.

Piuttosto von Trier, al contrario, evita le provocazioni facili e ruffiane che, ad esempio, caratterizzano e rendono, per molti, come accattivante, stimolante, irresistibilmente attraente e astutamente studiato per stupire il cinema compiaciuto di Aronowski e delle sue opere concepite per suscitare scalpore e facile presa emotiva, sdegno in svendita ed irritazione a pelle.

Qui si fa sul serio.... anzi proprio per nulla: lo scandalo fa parte del gioco, ma, nemmeno troppo nascosta, qui dalle parti di von Trier spunta un'analisi scientifica, fredda certo, concreta più che semplicemente compiaciuta: una base solida su cui poggiare la propria storia, senza guardarsi attorno citando a sproposito, come a mio avviso fa Aronofski ogni istante e stoltamente in Mother!

Stupendo e coraggioso, fisicamente ancora in gran forma, Matt Dillon in versione nerd si trasforma nella belva attraente di un uomo finalmente realizzati, almeno finché non torna a frustrarsi per il fatto di essere troppo bravo, e proprio per questo risultando irrintracciabile e non valutabile da terzi: e l'arte non è nulla senza la contemplazione di un pubblico che tene riconosca la paternità.

Coraggioso il Dillon, dicevamo, anche solo per il fatto di aver avuto il coraggio di accettate un ruolo devastante, ma indimenticabile, come quello di Jack: il ruolo della vita, che suggella una carriera lunghissima iniziata con un maestro come Coppola e proseguita, tra alti e bassi,  con scelte coraggiose e spesso per nulla scontate.

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