Regia di Claire Denis vedi scheda film
Un film parlato, troppo, la collaborazione alla sceneggiatura con Cristine Angot produce uno sviamento non del tutto positivo dal linguaggio di Claire Denis fatto soprattutto di immagini.
Nel lontano 1994 Claire Denis girava quel piccolo capolavoro che è J'ai pas sommeil, una dichiarazione di poetica che dopo Chocolat e S’en fout la mort completava la messa a fuoco dei suoi “frammenti di un discorso amoroso” visti dalla parte del cinema.
Linguaggio depurato da ogni sovrastruttura, quello di Claire Denis “procede nella sua grammatica essenziale, pre-verbale, dando forma alla materia grezza e alle infinite sfaccettature della vita.”(v. in J'ai pas sommeil )
//www.filmtv.it/film/24939/j-ai-pas-sommeil/recensioni/709995/#rfr:film-24939
Lì Camille, ragazzo creolo della Martinica, cantava in un locale parigino per omosessuali Le lien défait, una delle celebri ballate di Jean-Louis Murat.
…on se croit d'amour
on se croit féroce enraciné
mais revient toujours
le temps du lien défait
on se croit d'amour
on se sent épris d'éternité
mais revient toujours
le temps du lien défait…
Sembra coniata per il cinema della Denis.
Declinato in vario modo il tema amoroso nel suo cinema gira intorno ad una nota sola, “lo straniamento, quel senso di non finito, non detto, non appagante che stringe alla gola meglio di un finale terrorizzante. Frazionare l’attesa di una soddisfazione finale significa annullarla, frazionamento molecolare di storie che a tratti sembrano ricondurre ad un centro per perderlo subito dopo.”
In Isabel il tono è meno estenuato, più accattivante, meno sperimentale, più adatto al grande pubblico, ma la trama sotterranea resta la stessa.
Juliette Binoche/Isabel polarizza l’attenzione sul suo viso, la parte di un corpo su cui transita una varietà di espressioni tutte riconducibili ad un unico centro, la ricerca perenne e perennemente insoddisfatta d’amore.
Una girandola di uomini, tutti diversi, quasi a sperimentare le varie possibilità alla ricerca di quella giusta, ruota intorno a questa matura e bella signora dedita all’arte pittorica (ma l’estro artistico sembra accessorio in un profilo maniaco depressivo come il suo).
Il mondo intorno a lei quasi sparisce, si riduce a brevi aperture in cui fanno capolino amiche, galleristi, serate in night, la spesa in pescheria, una fettina della Tour Eiffel illuminata.
Di regola lo spazio fisso è la porta che si chiude sull’interno del suo appartamento. Lì torna sempre, da sola o in compagnia, e il finale è lo stesso, fallimento.
Di una figlia di dieci anni vediamo un flash fugace, l’ex marito è una figura inconsistente che appare e scompare ma non vuol restituirle le chiavi, chissà perchè
L’ultimo approdo di questa vita senza qualità, vissuta a frammenti sparsi, è il sensitivo, un Dépardieu fedele fino all’identificazione totale col suo rude personaggio grottesco che la mole accuratamente gonfiata negli anni favorisce non poco.
Una lunga sequenza finale in cui, col pendolino che gira sul tavolo, legge le cose della vita, “i cavalier, l’arme, gli amor, le audaci imprese ” e alla fine dice la sua: “Lei, cara signora, deve trovare un bel sole interiore” (che poi è il titolo originale del film.)
Isabelle non ha l’aria di capire granchè del lungo sproloquio, la sensazione è che la sua ricerca del grande amore continuerà finchè ci sarà speranza (e fisico).
Un film parlato, troppo, la collaborazione alla sceneggiatura con Cristine Angot produce uno sviamento non del tutto positivo dal linguaggio di Claire Denis fatto soprattutto di immagini.
“Non avevo mai lavorato prima con qualcuno che sapesse creare un'atmosfera soltanto con l'uso delle parole, del dialogo, o meglio dei monologhi, perché sono tutte persone molto sole quelle che abitano questo film. Conoscevo Christine Angot da molto tempo e amavo i suoi libri. Sono andata ad ascoltare le sue letture e abbiamo costruito un legame forte, di grande amicizia e ammirazione. Il film è frutto di questo legame.”
A monte c’era uno dei frammenti del discorso amoroso di Roland Barthes, Agonia, da riuscire a trasformare in racconto cinematografico. Impresa titanica e rischiosa, com’è facile arguire.
La scelta dell’interprete era abbastanza scontata, senza Binoche o Huppert sembra che il cinema francese oggi boccheggi.
Il risultato è un film che lascia freddi, e non perché non ci siano grandi storie, parlare della vita quotidiana di una donna come Isabelle può essere fonte di grande ispirazione, e pensiamo a Chantal Akerman che col niente dice tutto.
Più che di frammenti qui si tratta di lallazioni di un discorso amoroso, come è stato ben osservato (My Movies), siamo al pre-Adamo ed Eva, anche se un valore va riconosciuto.
Quale? Quello della verità su una certa condizione femminile che, benchè attardata su modelli superati, ancora sussiste e ci si augura finisca per sparire del tutto.
Bene dice il santone Dépardieu, “cercati un sole interiore” (… che tanto l’uomo di sole ha ben poco).
E il cameo della Bruni Tedeschi? Mistero, frammenti di mistero.
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