Detto che al momento il film non ha trovato ancora la via delle sale, quello che qui preme sottolineare è come la bontà del risultato finale sia destinata almeno per il momento a una schiera di fortunati non così numerosa come invece meriterebbe. La quale cosa è un vero peccato, perché Montecchi mette in pratica come meglio non si potrebbe le regole del cinema indipendente, senza dimenticare che tensione e paura dipendono innanzitutto da ciò che non si conosce e quindi, in termini cinematografici, dalla capacità delle immagini di evocare ciò che rimane fuori dal campo visivo. Da questo punto di vista la vicenda narrata dal film è di quelle che stimolano l’immaginazione dello spettatore, poiché la situazione di pericolo in cui versa la giovane donna ci viene presentata senza che di lei e del suo persecutore si conoscano precedenti e motivazioni. Spogliata di qualsiasi movente psicologico o materiale che non sia quello dell’insana follia dell’uno e dell’altro e rinchiusi in un albergo andato in disuso, la relazione tra l’uomo e la donna per quanto definita nei suoi rapporti di forza (lei per la maggior parte del film è legata mani e piedi su una sedia sotto la minaccia del coltello impugnato dal malefico carceriere) viene continuamente rimessa in discussione da detour visivi e sensoriali all’interno dei quali ruoli e rapporti sembrano perdere il loro significato originario, risultando il frutto di un singolare passatempo amoroso.
Un po’ come nel cinema di Lynch, in cui nulla è reale e tutto è permesso, In a Lonely Place decostruisce il reale per poi ricomporlo con i tasselli di un’esistenza più sognata che vissuta, più desiderata che consumata, riuscendo a sostenere le ambizioni di un film fuori dalla norma grazie alle caratteristiche di un dispositivo che lavora sul tempo cronologico e sullo spazio ambientale, trasfigurando il presente narrativo all’interno di un contesto in cui le musiche retrò, gli interni impolverati e spogli dell’albergo prigione si fondono con il processo d’astrazione operata sulla realtà attraverso la particolarità del formato filmico (una sorta di cinemascope) e mediante l’utilizzo sistematico di campi medi e lunghi che, allontanandole dalla vista, trasforma le fattezze delle figure umane, e in special modo quella del luciferino protagonista (Luigi Busignani), in qualcosa che trascende l’umano e che assomiglia alla personificazione dei sentimenti d’orrore e di passione presenti nel corso della storia. Passato con successo in diversi festival e concorsi dedicati al genere di riferimento, In a Lonely Place è un debutto di cui prendere nota.
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