Regia di Niles Atallah vedi scheda film
Opera affascinante dove un episodio della storia "minore" viene ricostruito attraverso un linguaggio sperimentale e spiazzante. Consigliato solo a chi sa mettere in discussione le proprie certezze
Orélie-Antoine de Tounens, avvocato francese dotato di un forte spirito avventuroso, nel 1860 si inoltrava nelle regioni dell'estremo lembo meridionale del continente sudamericano, formalmente suddivise tra le neonate nazioni di Cile e Argentina, e lì riusciva a stabilire un contatto con i capi delle assai poco amichevoli tribù locali e a farsi addirittura nominare sovrano di un regno tanto effimero quanto surreale.
Sembra una vicenda partorita dalla fantasia di un Conrad o di un Melville, e invece è storia vera, anche se sulla effettiva costruzione dei fatti non vi è chiarezza assoluta (principale e praticamente unica testimonianza sono infatti le memorie dell'eccentrico aspirante sovrano).
Niles Atallah , regista cileno ma di natali californiani, parte da questo episodio pressoché sconosciuto e realizza un'opera di indubbio interesse, utilizzando un linguaggio sperimentale ed ardito per sviluppare una narrazione che spiazza e affascina lo spettatore. E a una prima parte in cui appare piuttosto chiara l'influenza di un maestro come Werner Herzog ne alterna una seconda in cui l'immagine diventa gioco travolgente di luci e di colori.
Rey è come detto un film affascinante ma per nulla facile; richiede una dedizione dello spettatore che deve essere pronto a cogliere i segnali che il regista dissemina nel corso della visione.
Il protagonista è umano in mezzo alla natura, dipinta in maniera splendida con la mano professionale del documentarista (da qui l'accostamento fatto poche righe più sopra col grande maestro tedesco), e resta umano anche in mezzo ai soprusi del potere costituito, in un oscuro sotterraneo dove le autorità cilene lo sottopongono a un processo con verdetto già scritto, e dove tutti, giurati, giudici e testimoni, sono coperti da una maschera di cartapesta, emblema dell'artificiosità delle istituzioni umane in contrasto con la spontaneità della splendida natura selvaggia.
Da questo punto di vista è interessante la figura della guida Rosales, che lo venderà all'esercito cileno: umano come il suo cliente nei momenti in cui attraversano le terre selvagge della Araucania e della Patagonia, quando si trova nel ruolo di testimone (e accusatore) viene mostrato con il volto coperto da una grottesca maschera che ne rappresenta i lineamenti in maniera quasi parodistica.
Il film mantiene peraltro una sana linea di inquietudine per tutto lo svolgimento, anche l'incontro con i silenziosi indigeni, a loro volta coperti da maschere zoomorfe o da orpelli di paglia, appare trasfigurato in una dimensione di puro surrealismo, negando quindi allo spettatore ogni coordinata rassicurante con il già visto.
Eppure nonostante il linguaggio sperimentale e le soluzioni persino spiazzanti nel finale convulso, ad Atallah non si può negare di aver mantenuto una coerenza narrativa inappuntabile.
Un film assolutamente fuori dai canoni, destinato a palati che sappiano apprezzare la ricerca, e rispetto a certe opere ultra-sperimentali, un'opera che sfugge all'autoreferenzialità per fare in sostanza quello che un buon film deve fare: saper raccontare una storia e saperla raccontare bene.
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