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C'eravamo tanto amati

Regia di Ettore Scola vedi scheda film

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La recensione su C'eravamo tanto amati

di Peppe Comune
9 stelle

Nicola (Stefano Satta Flores), Gianni (Vittorio Gassman) ed Antonio (Nino Manfredi) sono tre amici che hanno condiviso l’esperienza eroica della resistenza al nazifascismo. Finita la guerra ognuno torna al paese d’origine e ad occuparsi delle proprie cose. Nicola vive a Nocera Inferiore dove insegna lettere in un liceo classico. L’ambiente in cui vive gli sta molto stretto e così lascia moglie e figlio per andare a Roma e cercare di farsi strada nel mondo della critica cinematografica. Tenta anche la strada del telequiz partecipando al programma “Lascia o raddoppia” rispondendo a domande sul cinema. Gianni torna a Pavia dove finisce gli studi di Giurisprudenza. Divenuto avvocato, arriva a Roma per affari e qui conosce Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi), un palazzinaro fiero della propria volgare ignoranza. Ne sposa la figlia Elide (Giovanna Ralli) per mero opportunismo e cerca di plasmarla alle proprie esigenze intellettuali. Antonio lavora come portantino in un ospedale romano, conosce e si innamora di Luciana (Stefania Sandrelli), una bella ragazza della provincia di Udine che si trasferisce nella capitale per cercare di sfondare nel mondo del cinema. Finirà per sposare Antonio, non prima però di aver avuto una storia seria con Gianni e di essere stata con Nicola.  Nel corso dei trent’anni dalla fine della guerra, i tre amici avranno modo di incontrarsi qualche volta, di fare il punto sulle rispettive condizioni esistenziali e di battibeccare sul “come sarebbe dovuto essere e non è stato”.

 

 

Retto da una solidissima sceneggiatura (firmata dall’affiatata coppia Age e Scarpelli e da Ettore Scola) e da un parter d’attori in stato di grazia (tra cui due “comprimari” di lusso come Aldo Fabrizi e Giovanna Ralli, premiati a Venezia come migliori attori non protagonisti), “Ceravamo tanto amati di Ettore Scola rappresenta uno degli esiti più alti di quella stagione del cinema italiano andata sotto il nome di “Commedia all’italiana”, quando, attraverso la caratterizzazione emblematica di determinati tipi d’autore, si raccontava il paese sapendone rappresentare gli aspetti identitari più peculiari. Sempre oscillando tra il serio e il faceto, ammantando di ironia il sottofondo sempre tragico che aleggiava lungo un paese in via di continue trasformazioni. Con la “Commedia all’italiana” il carattere stereotipato acquista una riconoscibile dignità artistica : perché si muove con buona resa stilistica nel solco tracciato dall’antica e nobile tradizione della commedia dell’arte e perché gli attori si fanno maschere polivalenti in cui ognuno può riconoscersi. Per questo film, Ettore Scola gioca di sponda con trent’anni di storia italiana, da quando l’amicizia tra Nicola, Gianni ed Antonio si fortifica durante l’esperienza eroica della lotta di liberazione, a quando si ritrovano a fare i conti con quel mondo che intendevano cambiare e che, invece, ha finito per “cambiare loro”. In questo quadro, si appunta l’attenzione sulle aspettative andate in gran parte deluse di quella generazione di uomini e donne imbevuti dei valori della resistenza e attraverso queste si rappresenta un paese percorso dai venti veloci del cambiamento, un paese che costringeva i Nicola, i Gianni e gli Antonio di turno a fare sempre i conti col proprio passato, a riprendere il filo coi loro migliori ricordi, a dover constatare con fare dolente che quel futuro del paese che volevano rendere migliore “era già passato”.  I cambiamenti incorsi nel paese e quelli che riguardano le sorti esistenziali dei protagonisti, sono strettamente legati tra loro. Questo rapporto speculare è rafforzato da una precisa scelta stilistica : quella di far seguire ad una prima parte del film in bianco e nero l’utilizzo del colore. Il tutto è raccontato con tocco leggero, sottintendendo il dramma dentro una storia che talvolta assume i connotati della farsa e facendo emergere il carattere di una nazione in alcuni dei suoi aspetti socio culturali più pregnanti attraverso una galleria di personaggi felicemente tipizzati. Antonio incarna l’anima proletaria non ancora totalmente compromessa, ha mantenuto una seppur flebile coscienza di classe ma si limita ad azioni di protesta di piccolo cabotaggio, come le invettive anticlericali lanciate contro le suore dell’ospedale in cui lavora che gli precludono ogni possibilità di ricevere una “promozione” facendolo rimanere portantino a vita. Coltiva giustificate aspirazioni piccolo borghesi e col suo modo diretto di dire e fare le cose è, tra i tre, quello che può guardare al passato con meno recriminazioni da potersi infliggere. Nicola, invece, riflette il velleitarismo intellettuale  portato all’estreme conseguenze, vanaglorioso e individualista, incline all’autoreferenzialità e con scarse capacità di produrre spinte collettiviste. Contesta radicalmente la società in cui vive, ma cerca il riscatto personale aiutandosi con uno dei capisaldi del “mondo nuovo” : la televisione. E qui val la pena soffermarsi un poco sull’esperienza di Nicola al programma televisivo condotto da Mike Bongiorno (che interpreta ovviamente se stesso) e non tanto perché questa sequenza, dal punto di vista narrativo, sia più pregnante di altre, ma perché in essa è già rinvenibile lo scarto tra la ricerca della conoscenza che fa perno sulla riflessione critica e l’appiattimento culturale di cui il potere mediatico si premunirà di rappresentare un fertile terreno di coltura. La domanda del telequiz riferita al film “Ladri di Biciclette” di Vittorio De Sica, l’ultima, quella che può fargli perdere o vincere tutto, famiglia inclusa, vuole sapere “in seguito a quale episodio il bimbo piange con tanto verismo”. Nicola risponde facendo riferimento all’espediente usato sul set per indurre il piccolo a versare lacrime vere, ma i notai della televisione si riferiscono semplicemente a quanto viene mostrato nel film. Nicola, per vanità evidentemente, parla di quello che c’è dietro la mera rappresentazione di un fatto, dei moventi psicologici che portano a produrre delle azioni piuttosto che altre e si rifiuta di accettare che la risposta sia sempre la più semplice, quella che tutti possono e devono conoscere ; la televisione è interessata solo a ciò che gli appare chiaro davanti, senza alcuna implicazione intellettuale. In effetti, le risposte giuste potevano essere due, ma la televisione decide arbitrariamente che una sola può e deve essere data al pubblico : quella più semplice ed accomodante perché più chiaramente riconoscibile. Poco importa se lo stesso De sica, in un’occasione ufficiale (che ci viene anche mostrata), nel raccontare un aneddoto riguardante le riprese di “Ladri di biciclette”, confermerà la giusta pertinenza della risposta di Nicola. Egli ha intrapreso una lotta impari contro la neonata società dei consumi e lo ha fatto combattendo con gli strumenti consegnatigli dalla storia della sua esistenza, gli unici che possiede. Ma Nicola è la dimostrazione che l’individuo lasciato da solo è destinato inevitabilmente a soccombere. Gianni ha cavalcato l’onda del cambiamento che ha invaso l’Italia e dopo essersi laureato diventa un imprenditore edile di successo. Incarna l’idea che il sistema possa essere cambiato dall’interno manipolandone le falle in maniera del tutto opportunistica. Ma quando è ancora persuaso che “saranno i Gianni Perego a cambiare questa società in una società più giusta”, si riscopre ad aver intrapreso una strada senza ritorno. Nonostante l’agiatezza economica raggiunta, il tradimento degli antichi ideali gli procura una vergogna incancellabile. Come dimostra la bellissima sequenza che ritrae Gianni ad Antonio incontrarsi per caso, dopo più di vent’anni, in un parcheggio romano. Gianni lascia credere ad Antonio, e poi a Nicola, di essere un parcheggiatore occasionale, di vivere di espedienti, che nonostante la laurea non gli è capitata mai l’occasione giusta per inserirsi come lui avrebbe voluto nel mondo del lavoro. Gianni è consapevole di aver perso più di tutti, che “il futuro è già passato”, e per non disperdere del tutto la bellezza di un’amicizia decide di rimanere nascosta la sua vera identità. Poi c’è Luciana, la testimone oculare di un amicizia che, tra incontri e scontri, fornisce uno spaccato emblematico delle divisioni incorse nella storia della sinistra italiana. Ama ed è amata in modo diverso da tutti e tre, per la naturale semplicità con cui si accompagna allo scorrere degli eventi , per il disimpegno che ci mette nel coltivare l’ambizione di diventare un attrice del cinema (caratteristiche queste che la fanno somigliare non poca alla Adriana Astarelli di "Io la conoscevo bene" di Antonio Pietrangeli). Romolo Catenacci è invece il residuo del fascismo che si è saputo riciclare senza troppi problemi e con successo nell’Italia democristiana. Uomo volgare ed ignorante, crede di essere immortale (“Io nun moro”, ripete solenne in una scena) come la casta di palazzinari ingordi a cui appartiene. Infine Elide, donna fragile e sola, passa dalla venerazione per il padre all’infatuazione intellettuale per Gianni. Condotta dal marito ad una cura intensiva di libri e cinema d’autore, arriva ad acquisire quella evanescenza esisestanzialista che è propria di chi non sa vivere che di luce riflessa. “C’eravamo tanto amati” è dunque il resoconto di una sconfitta, quella di tre amici avvinti dalle fauci del disincanto : tre amici per la vita divisi dalla vita. Nel mentre, le analisi sulle ragioni che hanno prodotto lo scarto tra cosa si era e come si è diventati rimangono irrisolte nel sottofondo di una società che, ieri come oggi, cambia troppo in fretta. Come ci suggerisce l’evasività di quel “boh” che Antonio e Nicola si rimbalzano l’un l’altro nella sequenza finale del film, una sequenza malinconica e comica insieme. Per concludere, occorre sottolineare il fatto che, al di là dell’ evidente passione cinefila di Nicola, il film è attraversato dalla presenza più o meno diretta di Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Vittorio De Sica (a cui il film e dedicato) e Federico Fellini (che interpreta se stesso con Marcello Mastroianni in un gustoso cameo che li ritrae sul set di “La dolce vita”). E’ l’omaggio amorevole fatto ad autentici maestri di cinema e ad una stagione aurea del cinema italiano, grande e, forse, irripetibile. Capolavoro. 

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