Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
"Kanal" narra il lancinante itinerario di un gruppo di polacchi della resistenza verso l’utopistica via per la salvezza. Il film di Andrzej Wajda è disgiunto in due parti principali; quella all'aperto, delimitata tra le macerie della periferia di Varsavia (la Vistola), in cui la truppa omogenea degli opponenti si districa fra le borgate, ormai ridotte in macerie, occupate dai nazisti, e la porzione ambientata nell’underworld, ovvero le fogne della capitale, dove gli insorti saranno sottoposti a molteplici agonie e sevizie dagli attacchi armati dei militari pronti a catturarli in superficie, e cercheranno in tutti i modi di non soccombere in quel labirinto mefistofelico senza uscita; qui entra in gioco la sorprendente tecnica del regista, con riprese claustrofobiche ed angoscianti, carrellate di primi piani affliggenti, madidi riflessi di luce sugli obnubilati volti. Un bianco e nero acuminato come plus valore per contrapporre morte e speranza. Un alterco di bagliori ed oscurità figurativamente rutilante, passionalmente spossante. Le trafile iniziali daranno spazio ad uno scorcio visionario carico d’orrore. In quel tormento squilibrato, in quell'affanno insostenibile, Wajda infonde il suo dolorosissimo, funesto carme. Struggente il simbolismo delle scene chiave. In queste sgomentanti immagini infuria un’esalazione catastrofica: la gamba mutilata celata da un lenzuolo di una fanciulla, l’enigmatico graffito che esibisce la scritta “kocham jacka” (“I love Janek”) sulle pareti della chiavica, il silenzio funereo percepito dal musicista nei vicoli bui di quella diramazione tombale ove il gruppo di sovversivi si è perso nelle tenebre della desolazione, il lacerante fotogramma del tunnel chiuso dalla grata. Un’odissea perversa nel sottosuolo, presagio di un destino impetuoso. Non esiste un miraggio di liberazione; la solidarietà (la fratellanza fra connazionali/commilitoni) non permette di scampare al nemico: la pena capitale o la sofferenza sono, forse, le uniche, avvilenti aspettative. In questi termini il lungometraggio è uno spaccato incalzante (e logorante) sulla tremenda condizione ìmpari a cui dovettero sottostare gli ammutinati durante l’avanzata hitleriana nella loro patria; e mentre viene allestita una dimensione onirica dall’impatto grafico repulsivo ed allegoricamente incisivo, alla pregevolissima resa dell’opera pervengono nondimeno la fotografia dai riverberi perforanti di Jerzy Lipman, nonché il sonoro dalla metrica attanagliante del compositore Jan Krenz, confacente a sviluppare il pathos pertinente alla sciagura. L’unica nota meno persuasiva è il tratteggiamento abbastanza sommario di certi comprimari, purtroppo non sempre determinato dalla prestanza espressiva adeguata ad esternare la fatalità del contesto. Magnifici, comunque, Teresa Izewska e Tadeusz Janczar.
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