Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
Un'odissea moderna di palpabile disperazione e sofferenza decisamente lontana dalla retorica ufficiale che sa ancora oggi suscitare sgomento e rabbia, indignazione e rigetto, proprio nel suo non essere celebrativa, per ciò che è stato e che il revisionismo in atto tenta adesso di minimizzare diminuendo il senso della sua portata distruttiva.
E' il secondo film del grande Wajda, indubbiamente quello che lo impose con prepotenza all'attenzione mondiale. "I dannati di Varsavia" è un'opera fortemente impattante, di q elle di fronte alle quali non è possibile restare indifferenti, dolorosa e potente, che esprime inequivocabilmente (e magistralmente) la posizione dolorosamnete critica del regista che si esprime attraverso un forte sentimento di odio per tutto ciò che di nefasto ha espresso l'ultimo conflitto mondiale. Potremo definirla in qualche modo una "moderna discesa agli inferi" questo viaggio nei sottosuoli di Varsavia (perfetta metafora della "storia" crudele che ha segnato indelebilmente gli animi e le coscienze di più di una generazione, da una parte e dall'altra). Il regista, con cupa determinazione, ci porta per mano dentro le storie dei personaggi che rappresenta, ne narra le tragedie anche struggenti, ci fa percepire il dolore e la disperazione con una forza evocativa di straordinaria presa e con sequenze spesso davvero sconvolgenti persino nella loro esasperata truculenza. Un'odissea moderna di palpabile disperazione e sofferenza decisamente lontana dalla retorica ufficiale che sa ancora oggi suscitare sgomento e rabbia, indignazione e rigetto, proprio nel suo non essere celebrativa, per ciò che è stato e che il revisionismo in atto tenta adesso di minimizzare diminuendo il senso della sua portata distruttiva. Il film ottenne a Cannes il premio speciale della giuria e da lì iniziò la fortunata penetrazione dei mercati internazionali che rese grande nel tempo il nome del regista (ancora parzialmente misconosciuto in patria, visto lo scarso successo che ebbe il film nella sua terra da parte del pubblico e persino la fredda accoglienza che gli riservò la critica). La storia (anzi le storie, perchè Wajda si sofferma persino a raccontarci due strazianti idilli quasi a sottolineare la visione romantica dell'esistenza che - nonostante tutto - lo rappresentava e che troverà sviluppi positivamente espansi in molte delle sue prove successive) è ambientata nel settembre del 1944, durante l'insurrezione di Varsavia. Alcuni insorti, circondati dai nemici, cercano di trovare la salvezza tentando una via di fuga utiliizzando le fogne della città con l'intento di raggiungere così il quartiere di Srodmiescie. Si divideranno in tre gruppi, ma le difficoltà del percorso, gli ostacoli che si contrappongono, oltre che i tradimenti e le imboscate dei tedeschi, faranno fallire la missione e alla fine del viaggio, tutti saranno catturati (i superstiti naturalmente). C'è una scenta che ricordo sempre con particolare partecipazione emotiva, ed è proprio quella dei due amanti che si illudono per un attimo di essere arrivati alla salvezza: la Vistola è davanti a loro, li separa soltanto, un'inferriata... al di là forse ci sarà la libertà e un possibile futuro... ma l'uomo verrà preso e crudelmente fucilato... e anche i loro sogni moriranno così nella plumbea oscurità prima che davvero arrivi l'alba. La guerra combattuta da questo manipolo di "resistenti armati", è già persa, e loro ne sono pienamente consapevoli. Eppure, nonostante ciò, in un ultimo anelito illusorio, tenteranno ugualmente di andare fino in fondo, e non solo per una questione di carattere morale, naturalmente perchè qui le motivazioni sono ben più radicate e profonde. Wajda non teme di sporcarsi le mani, e "narra" il furore tragico di questi "dannati" con assoluta aderenza anche personale, così da rappresentare attraverso di loro, persino il proprio intimo sentire, a costo anche di cedere (e a volte accade) a un'enfasi quasi furente (quella della tragedia) molto più estremizzata di quanto la razionalizzazione oggettiva delle idee avrebbe dovuto concedere (si possono così anche per questo perdonare alcune piccole sbavature, come una certa disperisione narrativa, o la definizione non del tutto messa a fuoco di alcuni personaggi come quello del musicista, perchè ce ne sono altri, come quello davvero straordinario del capogruppo Zadra, che ristabiliscono gli equilibri in assoluto e totale positivo). I mezzi a disposizione del regista erano davvero scarsi, ma sono riscattati egregiamente dalla bellissima fotografia ad opera di Jerry Lipman di un bianco e nero quasi sporco e fortemente contrastato pieno di angosciose suggestioni.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta