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Il filo nascosto

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il filo nascosto

di Peppe Comune
8 stelle

Raynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è uno dei sarti più ricercati d’Europa, il suo atelier veste i reali d’Inghilterra e gli esponenti dell’alta borghesia del paese fanno a gara per essere suoi clienti esclusivi. Ad aiutarlo è la sorella Cyril (Lesley Manville), una donna determinata che cura la gestione dell’atelier di famiglia con inappuntabile precisione. Reynold vive il suo lavoro in maniera maniacale, non ha tempo da dedicare ad altro e le donne che gli ronzano intorno rappresentano solo delle fugaci distrazioni. Non sarà così per Alma Elson (Vicky Krieps), una cameriera conosciuta in un locale che lo colpisce fin da subito. Prima diventa una sua modella, la musa ispiratrice delle sue creazioni, poi compagna di vita. Reynolds impara ad amare Alma, ma la fa rimanere sempre ai margini rispetto al suo adorato lavoro. Alma accetta questa sua posizione, è disposta a dedicarsi a lui totalmente, ad essere un amante silente, come un’ombra discreta che interviene alla bisogna. Ma dopo avere superato la diffidenza che Cyril inizialmente nutriva nei suoi confronti, Alma ha in mente un piano per ribaltare alla radice la natura del loro rapporto.

 

Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

Il filo nascosto (2017): Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

 

 

“Raynolds ha trasformato i miei sogni in realtà e io gli ho dato in cambio quello che più desidera : ogni singola parte di me”. Così inizia “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson, con queste parole dette da Alma in quella che sembra una confessione appassionata i cui contenuti spesse volte fanno capolino lungo tutto il film. Una sorta di testamento in vita che sembra voler chiarire i contorni complessi di un rapporto sentimentale vissuto da entrambi in maniera totalizzante. Un rapporto che domina il film fino ad impossessarsene, che si configura, dapprima come un melò ammantato di seducente complessità emotiva, e che poi si delinea come un raffinato noir psicologico. Raynolds e Alma sono caratterialmente molto diversi e diversi sono i mondi da cui provengono, il loro legame fa perno su un dare e avere continuo che vive del riconoscimento reciproco delle rispettive unicità caratteriali. Un rapporto esclusivo che si alimenta di assenze, di vuoti mai colmati, della mancanza di quel qualcosa di indefinito che ognuno tende a ricercare nell’altro. Quello che Alma non riesce a fare è amarlo come lei vorrebbe, così come Reynolds non riesce a concedersi come invece dovrebbe. Rimangono sulla soglia di un desiderio inafferrabile, tenuti insieme da un filo nascosto (appunto) che tesse la sua tela invisibile con lenta ma inesorabile precisione.

Il film vive di sfumature emozionali, di sguardi che cercano di accorciare distanze, di occhi che perlustrano labirinti cognitivi, di percorsi sotterranei che vorrebbero mostrarsi alla luce del sole, di rumori molesti (dell’acqua versata in un bicchiere, del tintinnio delle posate, del masticare sguaiato, del burro spalmato su un biscotto) che rompono la liturgia della routine. Raynolds è la misura di tutte le cose, i suoi sbalzi d’umore segnano la cadenza ritmica del film, si passa facilmente dalla complicità compiaciuta nei confronti di Alma all’insofferenza esplicita per il solo fatto che gli è seduta accanto durante l’ora della prima colazione, dall’estasi amorosa elaborata con gli occhi all’indifferenza spocchiosa praticata con il linguaggio del corpo. Reynolds ha bisogno di protezione, di sentirsi al centro del suo mondo, di essere assecondato in ogni sua spigolosità caratteriale. E le due donne mostrano nei suoi confronti una remissività complice e passiva insieme, come un ruolo che si accetta di recitare di buon grado. Soprattutto Alma, che gli diventa indispensabile non solo come musa ispiratrice, ma anche come donna in quanto tale, capace di liberarlo dal fantasma amorevole della madre. Ecco, Alma entra nella vita di Reynolds e la sorella insinuando il seme dell’imprevedibilità in un rapporto ritualizzato dal rigido rispetto dell’etichetta di casta. E riesce non solo a reggere il confronto con Cyril, resistendo alle scosse telluriche scaturite da un’alleanza filiale indissolubile, ma anche a portare il suo amato in campo aperto, in terreni inesplorati, oltre la mera forma, a palesarsi come l’unica persona che può salvarlo. Il loro diventa un rapporto (naturalmente) speculare che tende a ribaltare continuamente il rapporto tra vittima e carnefice, tra chi ha bisogno di sentirsi importante e chi si sente il reggitore esclusivo del destino dell’altro. Un gioco di specchi che trasforma il senso del dovere in impresa totalizzante, l’amore nell’altro nell’annullamento di se.  

“Il filo nascosto” segue un’unità spaziale abbastanza marcata, cosa che finisce per dare un ruolo centrale alla casa dei Woodcock, che è luogo di lavoro e di vita, scrigno di ricordi e di ombre. Un luogo protettivo dove a un certo punto si comincia a “respirare un’aria di quiete e di morte”, a tastare con mano un’atmosfera che oscilla tra il rispetto canonico delle regole di sempre e la rottura di equilibri consolidati. A questo espediente stilistico, Anderson aggiunge l’ampio ricorso a campi medi o stretti che tendono a dare ampio risalto alla centralità attribuita ai corpi. Sono i corpi l’oggetto del lavoro di Reynolds, è su di loro che deve modellare le sue creazioni, che si misura l’effetto estetizzante della sua esclusiva abilità. “Si può cucire qualsiasi cosa nella stoffa di un vestito”, ricordi, segreti, frasi d’amore, nomi, cose da tramandare oltre la caducità dei corpi, che si trasformano, si corrompono, muoiono. Sono ancora i corpi che vogliono appagare gli insani appetiti della gola, che desiderano abbandonarsi alle passioni tentatrici. Perché sono sempre dei corpi quelli che parlano sottovoce un linguaggio che architetta le sue trame nascoste. Quello di Alma, che prende coscienza di una perfezione che non sapeva di possedere, di una purezza che solo mani abituate a misurarne i contorni hanno saputo valorizzare. Quello di Reynolds, che si scopre sempre più desideroso di trovare nel riposo forzato il motivo necessario per staccarsi dalla maniacalità del suo lavoro. A mio avviso, c’è una sequenza altamente emblematica in tal senso, ed è quella in cui Reynolds si avvicina ad Alma che dorme su un divano e a precederli, alla loro destra rispetto all’inquadratura, c’è in bella posa un abito da sposa (vale la pena ricordare che nelle visioni dell’uomo, la madre gli appare sempre vestito in abito nuziale). La macchina da presa si avvicina lentamente ai due, il vestito da sposa viene superato poco alla volta dal lento incedere del carrello e scompare del tutto dall’inquadratura proprio nel momento in cui Reynolds chiede ad Alma se vuole diventare sua moglie. In quel preciso momento, l’uomo che dà voce ai suoi sentimenti necessari prende il sopravvento sul sarto annichilito dal suo genio creativo, la forma estetica cede il passo all’epica del racconto. E il Cinema si impossessa (scostumatamente) della scena.

I personaggi di Paul Thomas Anderson non sono mai alle prese con faccende banali, grandi o piccoli che siano, degli egocentrici già ben consapevoli del loro ruolo nei meccanismi sociali o degli arrivisti alla ricerca strenua di un posto al sole, hanno sempre un impatto prorompente nello sviluppo narrativo della storia, che dominano come un qualcosa che gli appartiene, imprescindibilmente. Questa caratteristica non rende quello di Anderson un “tipico” cinema d’attori, quanto piuttosto un cinema che tende a rappresentare la storia nel suo divenire attraverso l’etica dei suoi personaggi, la loro presenza scenica, la loro forma esteriore, il loro vissuto interiore. Per una poetica che assomma epica del racconto ed estetica dello sguardo, sostanza tattile dei corpi e intrecci variabili della psiche. Un Cinema che sa reinventarsi in corso d’opera, che sa reinterpretare continuamente nuovi modelli cui attingere (Altman, Rossellini, Sirk), che sa allinearsi stilisticamente all’immaginario che muta la sua pelle.  Tutto questo per dire che Paul Thomas Anderson è destinato (per fortuna) a fare ancora diversi film, ma “Il filo nascosto” sembra essere la sua opera definitiva, quella in cui la magniloquenza ricercata degli ambienti, il gioco ambiguo degli sguardi, il far prevalere il cinema attraverso l’uso “simbolico” della messinscena, il sottile incastro tra macro e micro storie, trovano il loro equilibrio compiuto. Grandi prove d’attore dei due protagonisti, con Lesley Manville che regge l’urto di doversi confrontare con il talento ipnotico di Daniel Day-Lewis. Un film maturo di un autore che è già grande.             

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